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24 Dicembre 2016
Prima di Natale
di Stefania Castella



Prima di Natale
stazione di Milano

“Che te stee chì a fà... Perché non te vee a cà?”. La voce roca del dottor Andrea mi coglieva alle spalle come ogni volta. Il suo passo leggero non lo sentivo finché non m’investiva l’odore del sigaro spento, che ancora sapeva di menta. Lui era l’ultimo a lasciare l’ufficio sempre attaccato alle sue diapositive. Stava lì chino a scegliere e montare per ore, un lavoro che sembrava più un pretesto per staccare e rifugiarsi in un mondo che non esisteva più. Anche l’archivio ormai non chiedeva più, ma il dottor Andrea continuava a catalogare, scegliere e scartare.

 

Ogni tanto tirava su la testa, magari c’era una foto più vecchiotta delle altre mi chiamava dall’altra stanza e io dovevo correre e stupirmi. Come facevano tutti. In realtà io mi stupivo davvero. E gli volevo bene davvero, il lavoro in un ufficio come segretaria in quello studio editoriale era stato il primo vero lavoro trovato in città da quando da Napoli, terrona, mi ero trasferita a nord, in quella che sembrava una meta irraggiungibile. Milano “E che ci vai a fare a far la segretaria a Milano tanto valeva stare Napoli no?”. La prima delle frasi di mia madre, una certa logica poteva averla.

 

Ma io non sono mai stata una persona con una certa logica. Io non accettavo regole, non accettavo compromessi. Non accettavo di restare in casa in una casa dove regnava la costruzione fintissima di un matrimonio apparente, che si reggeva soltanto per non raccontarsi troppo. Un luogo dove le donne stanno zitte e sopportano, ingoiano la vita i tradimenti, piegano schiena e testa e vanno avanti. Io non volevo una vita così. E alla prima possibilità, ho messo quel che avevo in un borsone e sono andata via. Lontano da casa, dai ricordi, dalla famiglia dalle apparenze e le finzioni. “Io se non le dispiace, dottore, resterei ancora” Non avrei nessun posto dove andare. Nessun posto. Ho lasciato che tutto scivolasse via. Fuori la città è calata su di me come polvere leggerissima. Mi confonde. Resto ancora un po’. Le luci di fuori si infilano tra le ante, nel pulviscolo si accende un riflesso azzurrino.

 

I tre pc in fila svuotati da appuntamenti di cene di calore. Il mio è qui davanti a me, lampeggia la mia mail dice: "Mi spiace quest'anno non posso scendere giù. Lavoro” E dice ancora tante cose, troppe cose. Dice "Addio, lo so che non capisci lo so che non puoi capire. Lo so. Dovrei essere felice, dovrei abbracciarti e stringerti forte, stringerci forte tutti e tre, io tu e ...ma io non so se lo voglio questo piccolo uomo o piccola donna che sarà. Non lo so. Ti ho detto vai via. So stare da sola. L'ho dimostrato a me, l'ho dimostrato a tutti. Sono andata via, sempre. Sono andata lontanissimo, sempre. Da casa, braccia, affetto. Quando ci siamo incrociati sembravamo così simili, tu il tuo corso di specializzazione in ospedale io un lavoro intercettato come segretaria. “E chi te lo fa fare…” "Ci vado per stare via da tutto. Mà. Da me, da te, dal sole dal calore e una famiglia disgregata. Forse è questo. Forse la mia adolescenza con due genitori in lotta tra di loro insieme per finta, insieme per forza, e poi. Lui che la tradiva, e lei che sopportava.

 

E quella sorta di separazione, che voleva dire essere senza esserci, forse mi ha insegnato questo. Che tutti vanno via. Anche quando restano. E certe volte lasciano vuoti incolmabili, e prima che vadano via è meglio, molto meglio andare via prima. E sono andata via. Infilata in un treno casa della zia che neanche si ricorda che è nata a due passi da noi. Lei mi può ospitare troverò un lavoro. Milano era enorme e piccola più piccola di me. L'ho guardata dritta in faccia e lei ha guadato me. Abbiamo aspettato di incrociarci ed incastrarci. Abbiamo tagliato tutto, i capelli, i ponti col passato i fili del telefono nella casa nuova in affitto e un lavoro arrangiato. Poi è arrivato Claudio, ed è arrivato qualcuno da aspettare la sera, e poi sono arrivati gli amici con cui bere insieme. E poi sono arrivate le distanza quelle che ti fanno dire "Forse qualche fine settimana. Forse torno". Forse no. Forse resto. forse a Natale. I Natali tutti uguali, convenzioni, le discese in treno. Torno. Sì torno, a Natale.

 

Poi è arrivato questo Natale, quello in cui tornare voleva dire “Aspetto un bambino. Dovrei fare quello che vi aspettate che faccia. Fare quello che fanno tutte comporre una letterina sdolcinata che accompagni le scarpette in corda bianche, affiancarle ad un piatto di una cena sorridente. Invece sono chiusa al cesso di un ufficio solitario, di un giorno prima di Natale. Senza nessuna voglia di affrontare il mondo fuori. Guardo l’ora sono quasi le sei e trenta, e mi raccatto, spengo, chiudo, mangerò sul bus come ogni sera. Aspetto alla fermata che passi il mio 31 nero, e intorno a me facce disperse, gelide di luci di Natale senza luce. Guardo di fianco, mi spinge un po’ più in là un vecchio cappotto che doveva essere stato carino un tempo. E’ una giovane donna, faccia persa nel vuoto e occhi bassi. La guardo non mi accorgo di fissarla.

 

E non mi accorgo di salire insieme a lei sul bus, che mi porterà a casa. Difronte noi due sole, lei guarda in basso e intreccia sulla pancia le dita rosse e ossute. Ha un pancione grosso che sbuca dal cappotto. Chissà che cosa pensa, chissà perché è così abbattuta. Guardo il mio riflesso nel vetro di una strada che di fuori scorre. “Fatto tardi he?” Parla a me, una voce di bambina. “Dici a me? Io? Oh si, il solito orario. “Anch’ io faccio sempre tardi. Sai com'è cerchi sempre di far tutto in tempo e poi…La signora dove lavoro a fine giornata ha sempre qualcosa da farmi fare e…” E con quel pancione non deve essere facile. “Aspetti un bambino anche tu?” Mi dice e non so da cosa lo deduca visto che sono di poche settimane. “Sì, io…” “Anch'io sono un po’ più avanti mi sa. Quasi l’ultimo mese. Ma non posso stare a casa, sai com'è. Il mio ragazzo ha perso il lavoro, devo arrangiarmi”.

 

Guardo le mie stupide unghie ed il mio smalto, e un po’ mi sento in imbarazzo. Quella ragazzetta avrà appena vent’anni, e sembra una nonnetta con la faccia disfatta “Mi sa che neanche tu sei di Milan? È vero? Io sono di Polignano, tu di dove sei?” Continua a sorridermi e “Napoli” sorrido anch'io. “Allora sei di quelli che tornano giù alle feste no? Quanto vorrei pur io. Ma giù oramai non c’è nessuno. Ho una sorella, lavora in Germania, i miei sono anni che non ci sono più. Mi manca un sacco sai quel viaggio di ritorno, quando sentivo l’odore di casa appena messo il piede in treno” … Forse lo so. Sì che lo so. “Senti, io, mangio da sola domani è la vigilia se ti va magari vienimi a trovare ti dico dove sono e…Non mi guarda, guarda altrove. “Lui non troverà lavoro. Ha perso tutto quello che avevamo. A volte sai, sento un po’ paura vorrei tornare indietro ma non posso. Potrei, avrei potuto dire arrivederci amore, ormai non c’hai più niente da campare, e questo figlio, come mangerà? Ma lo sai cosa, io credo ancora, ci credo che magari può cambiare. E che domani forse sarà meglio. E’ Natale deve andare meglio…Ma adesso scusa, ho un dolore così forte, che forse…Forse Oddio, si sono rotte le acque … Aiutami …” La vedo spalancare gli occhi forse sta per avere un bambino e quell'interminabile viaggio sembra più lungo di sempre, cerco di chiamare aiuto cerco di fermare il bus, cammino come in un lungo sentiero desolato e sembra che nessuno senta e sembra quasi che… “Signorina, guardi che siamo al capolinea…” Non ricordavo neanche di esserci salita. “Mi scusi che ore sono?” “Quasi le sette” Forse potrei, forse riesco ancora un poco a rimediare. Forse potrei telefonare a Claudio e magari prendere il treno insieme a lui. Claudio a Natale scende giù dai suoi a Polignano. Che strano…  Magari faccio ancora in tempo a ripensarci magari forse… perché è Natale e deve andare meglio. Forse, può andare meglio… Forse








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