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01 Novembre 2017
Callas e Onassis. Un amore a ferro e fuoco.
di Stefania Castella



Callas e Onassis. Un amore a ferro e fuoco.
Callas Onassis Meneghini

Crollano ai miei piedi. Lasciano scivolare le mani dalle poltrone di velluto, si può spostando lo sguardo scorgere curve tonde, eleganti, luccicare tra le file, fili di perle e diamanti, sorrisi stirati, torri di capelli a intrecciare teste di pensieri vaganti sperticarsi, drizzarsi, emozionarsi. Sorrido come ho imparato a fare. Sorridere, nascondere. Sorrido a chiunque sorridevo anche a te. Sorrido ricordando le occhiate superbe che scivolavano sul corpo troppo tondo per mostrare la fragilità. Quando dicevano che un elefante non sarebbe mai stato una farfalla. Adesso volo leggera sulle mani che si schiudono per me. Potevo essere farfalla, potevo essere qualunque cosa. Tutto tranne quello che volevo veramente essere. Percorro l’immensità della passerella, la giusta estensione della tua enorme potenza, tu puoi ogni cosa, circondato dal bagliore della tua impronunciabile grandezza, ci hai voluti accanto a te. Dopo aver messo in fila le rose innumerevoli che mi donavi, ho pensato che ci avrebbe fatto bene. “Perché no”, anche se poi in realtà sapevo che m’avrebbe fatto male e non mi andava di pensarci. “Mi verrà la nausea” e sorridevo anche a lui, alla sua faccia pallida scossa dal rollìo della lussuosa meraviglia che “passerà la costa fino alla Turchia”. Per una volta, una volta sola, penserò a me. Per una volta penserò che posso decidere della mia vita, delle mie mani, di quello che voglio stringere, quello che voglio lasciar andare. Fingo di essere inespugnabile ma perdo piccoli pezzi e ancora ne perderò dal maledetto giorno in cui incrociavo la mia vita con la tua. Tu volevi tutto e volevi me. Tu potevi avere tutto e potevi avere me, tu che probabilmente mi hai voluta a modo tuo come si vuole un nuovo addobbo luccicante da appuntare al petto. Dovevo essere farfalla e fuggire via battendo le ali, ero ancora l’elefante goffo che ha paura a fare un passo, che vive col timore di vedere visi che si voltano, mani che si coprono la bocca sghignazzante. Sono io, sono proprio io, che forzerò il mio corpo a diventare ciò che vuole, a rincorrerti di volo in volo per tenermi affianco a te mentre dicevo all’uomo che m’aveva sollevata al mondo “basta”. Ti rincorro svesto i panni del mio mito per mostrare ciò che sono, una donna fragile, ferita dall’amore, ferita da se stessa, rapita dall’idea che sì, si può volere tutto e avere tutto e sopportare il nulla che rimane. Sì, si può volere l’uomo che somiglia a ciò che credi, per poi scoprire ciò che è, dolorosamente affilato da ferire e poi sparire. Dondola la nave e luccica lacrime di champagne, dovrei fermare il tempo adesso, per non rendere possibile ciò che so, succederà. Mi farai male ed io lo so, ci farà male questo vivere, il figlio che la vita mi negava, gli applausi che non limano il dolore. TI cerco inutilmente tra promesse che hai disfatto, mentre un brivido oltrepassa l’impalpabile eleganza del mio bel vestito beige, tintinnano i bicchieri ed io sorrido, ancora, a questa messa in scena, sono un’attrice posso farlo, anche se tu dentro i miei occhi avresti letto verità che mai nessuno vide mai. Oltre le nuvole Parigi, è lì che slegheremo il nostro vivere, dov’è la donna che sposasti? Ti guardo scivolare via nel sonno più profondo e tu ti perdi nel ricordo di noi due. Lo so che eri di un’altra, e so che sei rimasto accanto a me comunque, lo so dalla coperta che ora stringi, ricordi? E’ quella che in un tempo ormai lontano ti donai, che cosa resta? Forse il colore rosso intenso di un amore che ci ha messi a ferro e fuoco e brucia ancora.








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