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19 Novembre 2016
Per un attimo solo, rimani con me
di Stefania Castella



Per un attimo solo, rimani con me
scrittura automatica

“Adesso devo andare ma voglio che tu la smetta. Che torni a vivere. Come me”. Ma questo non posso non posso prometterlo, ora che questa storia è finita non so cosa posso promettere. Daniele sorride con la faccia rotonda con gli occhi trasparenti, Daniele è bellissimo non perché sia mio figlio, ma perché è bello col cuore bello coi sorrisi belli coi progetti infiniti. La testolina era rossiccia quando è nato le dita secche e lunghissime, e gli occhietti stretti.

 

L’ho visto crescermi incontro mentre crescevo con lui. Una vita normale una famiglia normale, amici rumori chitarre e disegni appallottolati negli angoli da raccattare coi calzini. Daniele e la foto della cresima la comunione, i diciott'anni, e poi quelle prima del viaggio. “Fammi una foto, così quando sarai vecchia e io sarò lontanissimo la guarderai e ti ricorderai di quanto era bello il tuo dolce figliolo”. Rideva, forte di risate assordanti. E progettava i suoi viaggi, e programmava quel suo compleanno, quello dei suoi 24. Il suo ultimo giorno con me, in questa vita. “Ti vorrei regalare anch'io qualcosa che guarderai quando sarai troppo vecchio per pensare a tua madre.

 

Così in questo libro pieno di pagine bianche alla fine potrai scrivere quel che ti pare, mentre qui fino a metà ci son tutte le poesie che ti ho dedicato da quando sei nato, e poi tante di tutti gli autori che ti sei andato a studiare e… “E che palle mamma!” La risposta e le risa degli amici e di Francy la ragazza che da qualche mesetto gli stava vicino. Gli amici di sempre quelli dell’oratorio, delle elementari vicini anche al liceo e poi all'università. Daniele aveva una vita piena di cose da fare, insegnava a suonare la chitarra nei giorni in cui non preparava la tesi. Giocava a calcetto ogni mercoledì. Progettava viaggi, studiava parecchio. Tanto da sembrare svuotato in quell'ultima parte di vita prima della laurea.

 

C’era da sistemare la tesi e un via vai scandito regolarmente tra casa lezioni e l’assistente di facoltà che gli dava una mano a stilare per bene quell’ultima fatica. Doveva vederlo quel fine settimana dopo la festa e poi… Il telefono squilla mentre un inutile tipo continua a rivendere lo stesso frullatore da ore. La tele accesa a fare compagnia. Da quando la casa è svuotata di un marito lontano in un paesino disperso a cercare una nuova gioventù con la nuova liscissima segretaria, in casa io e Daniele, e senza di lui il rimbombo del mio fiato, dello sbattere delle mie ciglia e una tele noiosa. “Venga signora c’è stato un’incidente”. E La tempia mi pulsa, il respiro si ferma.

 

Non riesco a capire, non so chi chiamare non so cosa dicono e che cosa fare. So che Daniele era in facoltà. È lì che mi dicono di averlo trovato ai piedi di un finestrone, caduto dal terzo forse quarto piano. E non dicono nulla e non capiscono nulla. Non capiscono che mio figlio no, non si sarebbe mai tolto la vita. Lui che amava la vita. Lui no. Il tempo è fermo immobile, non sento rumori, come dentro un lunghissimo sonno. Di quel giorno lì, non ricordo che il vuoto, il freddo pungente e il suo corpo disteso senza più nessun sogno, senza più nessun segno, di appunti lasciati, parole da dire.

 

Mio figlio scriveva, racconti poesie, mio figlio parlava anche senza parlare e non avrebbe deciso quel volo senza una sola parola per me... per la ragazza che amava. E un giorno dietro l’altro il dolore insinuato è diventato più forte una ferita che si infetta e più passano le ore più diventa dolorosa. Il letto disfatto che non rifarò mai, che non toccherò mai, e lacrime e un tempo a rubare le ore. A voler solo sparire. “Signora, è evidente non c’è nulla da aggiungere. Suo figlio aveva forse una forma di depressione latente che è esplosa in un frangente in cui probabilmente sopraffatto dallo stress, dallo studio non ha retto e…” E parole che non capisco che non voglio sentire. E giorni e notti dello stesso colore, e mani da stringere e bocche che baciano che parlano incomprensibili parole di commemorazione. Ma che dite, che fate? Lui no, non poteva non doveva, lui era mio figlio.

 

Cercavo nel buio preghiere di fine, per smettere la vita, chiedevo solo di morire senza di lui non avevo più nulla. E chiedevo dagli amici e nei momenti più duri cercavo di capire. Cose che gli altri non sembravano capire. E l’ho cercato, l’ho chiamato l’ho invocato nel buio attraverso le luci distratte accese davanti. “Accendi una luce amore mio dimmi che sei qui con me”. E nulla nessun segno, cercavo tra libri, cercavo contatti, cercavo un aiuto. E aspettavo di udire anche un piccolo segno. E cercavo i suoi appunti per capire la vita, che mio figlio forse mi aveva nascosto.

 

Ma non c’era nulla se non i progetti che un ragazzo ventenne poteva inventarsi. E canzoni e appunti di studio. E mancava un pezzetto della vita che c’era, la tesi, che strano gli appunti dov'erano? Forse lasciati quel giorno in quell’aula? Nessuna risposta poteva alleviarmi. E dispersa nella notte una notte diversa, stordita di troppi ricordi, ascoltando la piccola radio che avevo da anni, dovetti per sbaglio mancare un pulsante chissà. Quel piccolo aggeggio rimase bloccato, sul tasto del REC a lampeggiare nel buio, e nel cercare di maneggiarlo, distratta e anche sfatta mi addormentai. Me ne accorsi al mattino quando ancora acceso pensai che sarebbe rimasto per poco ancora in vita quel coso vecchiotto. Toccai un po’ di tasti e sentì dei fruscii. Un sorso di latte e sentivo russare, mi venne da ridere ero io col mio sonno pesante. Il cosetto scorreva secondi, minuti un fruscio e quell'intimità del mio sonno mi stava incantando, ero io che dormivo e un silenzio di quiete, e poi a un tratto una cosa, quasi simile a un colpo di vento, diceva “mamma” sembrava davvero “mamma” mi stavo strozzando con il caffellatte, tornai un poco indietro premetti di nuovo.

 

Parole sconnesse ora simili a un suono, un suono di voce. Le lacrime riempirono gli occhi che non riuscivo a vedere dove premere ancora “Sono io mamma” ero certa non era una mia suggestione, quella era la voce di mio figlio che tornava da me. Provai per giorni e settimane e più niente, cominciai a studiare a capire come funzionavano certi fenomeni. Cominciai a concentrarmi e nel fare ricerche la scrittura automatica mi colpì nel profondo. Dovevo solo tenere una penna su un foglio aspettare, finché le nocche diventavano bianche, e la mani sembravano paralizzarsi. Provai e provai settimane mesi. E poi stanca tentai di rinunciare e fu allora che qualcosa si mosse. Diceva “Ciao sono io. Vecchia!” Come mio figlio diceva ogni volta per prendermi in giro. Marco suonò alla mia porta la mattina seguente, aveva il viso disfatto di chi non dorme da anni. Prendemmo un caffè con le facce disperse a guardare al passato a pensare a Daniele. Io come madre lui, il suo migliore amico. “L’ho sognato e per tutta la notte non ho fatto che sognare sempre la stessa scena e sempre la stessa frase -Vai torna da lui, guarda quei fogli. Non sono dove pensi che siano. Vai a casa sua leggi gli appunti guarda le foto, Guarda le foto-”. Io gli chiedevo chi, che cosa, “Samuele” mi ha detto “il relatore”, ma non so cosa volesse dire quel sogno, forse Daniele vorrebbe che non so che terminassimo il lavoro, le cose che” …

 

Non dissi delle cose già scritte, di quegli appunti. Ma sentivo che qualcosa doveva contare sennò il mio ragazzo non sarebbe tornato dal quel mondo altrove per dirci qualcosa. La pensò così anche il suo amico Marco, che tornò in facoltà più di una volta, per cercare quell'uomo che avrebbe dovuto parlare a Daniele per l’ultima volta. Quell'uomo non si riusciva a trovare, una volta non c’era, un’altra era ad un convegno importante. Marco decise di fare un salto a vedere di trovarlo in casa. E quando fu fuori a quella villetta isolata in campagna, scostando il cancello riuscì a farsi spazio. Sembrava deserto non c’era un bisbiglio, guardò oltre i vetri non c’era nessuno. Fece il giro del lungo cortile e trovò una porticina scostata di poco. Spinse con ansia, con un po’ di timore e vide che era vuota, sembrava una camera oscura, c’erano solo boccette e liquido per sviluppare foto, e fogli e appunti. “Robe di lavoro” pensò e si fece più avanti.

 

Osservò quegli appunti e anche due scatti lasciati sul tavolo accanto al PC. Non riuscì a realizzare sembravano corpi sembravano mani sembravano orribili immagini e piccole vite straziate o in pose schifose e sentì che era quasi sul punto di perdere i sensi. Quelle foto, un mondo raccapricciante nascosto, celato, che forse qualcuno aveva scoperto, che forse… Pensò a quel suo sogno, alla voce di Daniele, alle cose che aveva trovato e per questo … “Ora sai com'è andata. Ma non c’è rancore. Io sono tornato per quell’ingiustizia ma no, non era la mia vita che devo accettare, ma quella di tanti che voglio aiutare. Ora smetti d piangere, e torna alla vita. Io sono felice, non smetto di esistere solo che adesso sono da un’altra parte”

 

E quell'uomo varcò la soglia della sua squallida cella, manette a quei polsi che non avrebbero stretto più nessun altra vita. Daniele è tornato per mettere a posto le cose scoperte e quella verità che pagò con la vita. Adesso ci penso e lo abbraccio d’amore, e se stringo più forte le dita terrò ancora stretto per un altro momento il ricordo di lui.








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