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RaccontiStefania Castella

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29 Ottobre 2016
E tra quei versi ancora noi
di Stefania Castella



E tra quei versi ancora noi
una vecchia
macchina da scrivere

Mi chiama ancora, la piccola mi chiama e sento la sua vocina lontana mille miglia. Un attimo prima perduta su un foglio, viaggiavo felice, poi torno, è il disastro. La vita mi opprime, mi toglie la vita. Mi chiama, una tazza, cereali, calzette pulite da cercare, lunghe lenzuola da ripiegare. Storie, parole, faccende. E poi una voce: “La torta di mele di Annette quella dello scorso compleanno era perfetta”. Perfetta. È per questo che vivo per essere perfetta, come quella torta, come Annette come mia sorella, come le donne che vi somigliano, mamma. Sono madre anch'io sai mamma, sono brava anch'io sai? Potrei esserlo. Potevo esserlo. Se la scintilla di quello che ero davvero non avesse appiccato un incendio troppo vasto per spegnersi dentro.

Soli, siamo soli, una madre i suoi cuccioli, dipenderanno da me, e Londra è fredda, fredda e grigia, e risuonano i versi di un tempo che chiedono tempo, tempo che io non ho più. Se fossi Annette ne troverei di certo, Annette è perfetta brava e bellissima, una brava massaia, che il sabato mattina tira giù le tende come una maghetta munita di magica bacchetta che passa e tutto risplende, sempre precisa, ordinata in grembiule inamidato, tempo di moglie, tempo di madre. Ci deve essere qualcosa di storto e contorto in me, che vado cercando dell’altro.

 

Mi guarda la donna e sorride dal rosso involucro di quei cereali, tutt’a un tratto è Annette, e sorride e dice “Brava, apparecchia la tavola e prepara la cena ed il pranzo e la vita distesa e lisciata come la bianca candida tovaglia che hai tirato fuori”. E’ Annette che sorride dal vetro di una conserva, sorride da ogni parte, da ogni luogo a ricordarmi l’imperfetta imperfezione di ogni mia virgola, di ogni mio angolo. Brucio del tempo che non ho e brucio il cosciotto di pollo in quel forno malefico. Oh madre, non sarò mai come lei, né mai come te, né mai come voi.

 

E la testa che ruota non cerca più appigli. Hai la testa di lato, non mi guardi negli occhi, ho lasciato che andasse, ed è l’onta più grande, come può una donna lasciare che il marito cerchi rifugio tra le braccia di un’altra. L’ho fatto, mi aveva tradita ho lasciato che andasse che fosse felice, per cercare anch'io di essere felice. Quando le porte bianche e grigie fredde ed enormi mi si sono richiuse alle spalle, hanno cercato di svuotarmi la mente, ma nessun filo elettrico poteva portarmi la felicità. L’avranno pensato, anch'io ci ho pensato.

 

Ho pensato, che bello sarebbe pensare di meno l’ho meditato nell'orto di casa, nel tempo che è andato a curare le fragole, sorseggiare del latte sporcarsi le mani, gustare il dolce dolcissimo sapore di panna leggera, e sentirsi felice di niente, e non avere bisogno di niente. Cercarsi al riflesso di un vetro sottile piacersi, per un attimo non essere me. Lui adesso è con lei, gli dirò di tornare, e lui tornerà. Nell'attesa, pensare di poter riprovare e saprò che trovarmelo ancora davanti, non sarà che quell'ombra senza alcuna salvezza. Non sei tu, non sono io, non so dirti di cosa ho davvero bisogno, soltanto di stare seduta a guardare la vita che passa e tradurla su un foglio. Meschino, mi sembra meschino, non posso pensarci, potrei essere madre lasciarlo bastare, tornare a essere moglie saper perdonare.

 

Se solo il mio urlo si potesse sentire. Ora che voglio sgolarmi, che non puoi più salvarmi, urlerò ancora più forte, e lo lascio sul foglio il mio grido strozzato, attento a sentirlo, c’è affianco anche il numero del mio caro medico. Magari qualcuno poteva chiamare, magari qualcuno poteva passare, magari qualcuno poteva sentire. C’è il latte, i biscotti, non mancherà niente. Passerà un’altra notte tra le braccia dell’altra. Stai sereno tesoro, non mi avresti salvata, ci ho provato ad urlare più forte. Adesso lo sai, che quell'eco tornerà a risuonare. “Se torno muoio”.

 

Questo le hai detto con la testa tra le mani, parlando di me. “Se torno muoio”. E invece…








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