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10 Settembre 2016
Paura di me
di Stefania Castella



Paura di me
Una manina da stringere

Apro gli occhi nel buio. Mi volto, cerco con le mani la culla. Un salto all'indietro. Non è quel tempo. È passato quel tempo. Mi avvolgo al tepore della coperta, fatico ancora a restare di lato su un fianco, come vorrei. Ringrazio Dio questo è un silenzio buono, un silenzio che non fa più paura, sa solo di pace, semplice pace. Mi è mancato tanto. Ero un’altra a quel tempo. Erano i miei trent'anni, pieni di rumore, i corsi di cucina, le lezioni all'università, erano le cene con gli amici, col vino da scegliere. C’è stato un tempo di mezzo che sembrava leggerezza, attesa di niente, che quello bastava, e come succede sempre quando tutto è immobile nella sua perfezione, di solito è quello il momento in cui tutto cambia.

 

E arriva un tipo interessante e si unisce agli amici, e diventa la risata inaspettata, l’attesa che non ti aspettavi, l’incastro che un po’ ti mancava. Passano mesi e i primi anni che neanche ti accorgi, non serve il progetto prosegui e basta. Sono passati cinque anni, a ruotare come trottole a incontrarsi nelle pause, al telefono con mia sorella, con le scarpe che stancano sfilate veloce: “Anto, sono sempre stata un orologio…” e ti guardi allo specchio e arriva quel momento che hai spiato alle altre. Ti inventi una frase per dirglielo e aspetti di cogliere una certa espressione, e arriva l’abbraccio, il suo, il tuo che ti vuoi tanto bene, quello della schiera di amici che ti prendono in giro.

 

Non ero una ragazzina contavo la bella età di quasi 36 anni, ma non sono mai stata tanto forte, poi i dolori il tempo che arriva preciso, la corsa emozionata e il suo peso lieve sul petto. Mia, era mia, era una cosetta rossastra avvinghiata al mio viso. Lorenzo vestitosi da neo papà, e gli amici che ridono forte a quell'attimo nuovo. Poi piano piano ti scosti dal resto, guardi le facce improvvisamente ti senti diversa, c’è qualcosa e non sai che cosa, che cerca di tirarti fuori da quell'attimo perfetto che sembra felicità. Si faceva chiaro nei giorni a venire, a casa da sole, la fatica di notti su notti, l’ansia del pianto che non sai capire da subito.

 

Un’infezione cretina costretta a imbottirmi di medicinali rinunciai ad allattare, e la tensione cresceva di più. Facevo fatica a svegliarmi, a stare seduta, a tenere il biberon per il tempo che la piccola mangiava, mi sembrava di non riuscire a trovare pace, mi spaventava il rigurgito, mi spaventava il suo sonno continuamente interrotto di notte e rarissimo e breve di giorno. Inevitabilmente il rapporto con Lorenzo cominciava a incrinarsi, su lui scaricavo ogni tensione. Non riuscivo a mangiare, non rispondevo che a monosillabi, e non volevo nessuno intorno. Quello che era stato il nostro piccolo sogno, diventava ogni giorno di più un grandissimo incubo. Cominciavo a trasmettere ansia anche a lei, la mia piccolina, non avevo intenzione di riprendere il lavoro, mi sentivo sempre stanca, non avevo neanche voglia di alzarmi dal letto. I pensieri divennero pesanti, ossessivi, bui, lo sguardo di Mia una colpa perpetua.

 

Mia madre si fermava ogni tanto da noi, e piano piano Mia si legò alla sua nonna, tra le sue braccia dormiva, sorrideva, sembrava serena. I medici pensarono di iniziare terapie che alleviassero i sintomi di una supposta depressione, stabilizzatori dell’umore e tre, quattro, cinque compresse a scandire gli orari. Non mi facevano bene, anzi sembravo intontita, sembravo galleggiare. Sembravo sempre più lontana, sembravo stare sempre peggio, guardare Mia tra le braccia di mia madre, dormire tranquilla mi faceva sentire ancora più incapace, volevo sparire, volevo annullarmi, volevo morire. Ma non era voluto quello che accadde improvviso una sera più asfissiante delle altre. Lorenzo era fuori per un lavoro interminabile, mia madre a casa con un brutto febbrone, io inquieta e Mia di più, dopo ore di fatica ero riuscita ad addormentarla, e giravo come una belva rinchiusa in gabbia, improvviso un pensiero annullò altri pensieri e dal ballatoio mi affacciai per guardare il piano di sotto.

 

La nostra camera era al secondo piano della bella villetta. Forse un malore, forse un capogiro, non so bene cosa, mi trovai faccia a terra al pavimento di legno nel buio improvviso. Non so chi mi raccolse, mi svegliai due mesi dopo essere stata in coma, viva ma con la parte destra del corpo immobile, difficoltà a parlare, non riconoscevo le facce, non riuscivo a scandire neanche una frase. Quando varcai dopo tempo la porta di casa ero un’estranea, che non ricordava neanche di esserci stata. Mia era così grande e così lontana se mi avvicinavo piangeva, e piangevo con lei. Furono mesi di fatica, ero viva, ma una parte di me era rimasta bloccata al pavimento, al dolore, all'infelicità, al senso di colpa, che riflettevo negli occhi degli altri.

 

La riabilitazione dava lentissimi risultati e non capivo che era colpa mia, che preferivo restare immobile a guardare fuori piuttosto che sforzarmi di alzarmi e provare. Non capivo perché Lorenzo fosse così paziente, forse semplicemente per amore che restò accanto a me che sembravo soltanto fare capricci cretini, ma la scossa più grande fu quella che ebbi nel vedere che Mia era già così grande, cresciuta in quasi un anno, senza di me, tra le braccia di mia madre col viso affondato tra i suoi capelli, non mi riconosceva più e dovevo smettere di voltarle le spalle e pretendere di riprendere lei e la mia vita.

 

Fu un cammino faticoso, sopportai le sue urla, gli strepiti, il pianto, che si lasciasse avvicinare e cambiare e imboccare che imparasse a riconoscere il mio odore, le mie braccia, la mia voce. Mi rialzai per lei, per la forza che avevo preteso di avere. Mi volto allungo le mani alla culla che non c’è più da tanto. Mia, ha la sua camera e ancora la luce accesa. Mi alzo piano fatico ancora, anche adesso che il tempo ha allargato i ricordi e so che ce la posso fare. La guardo dormire, le bacio la fronte, sorride nel sonno, non ha più paura, e io non ho più paura né di lei, né di me.








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