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28 Maggio 2017
E sarà meglio.
di Stefania Castella



E sarà meglio.
madri e figlie

“Pensa che non era la strada giusta tutto qui”.

Non era la strada giusta. Dici. Ci devo credere, chi potrebbe avere ragione se non tu.

“Io non voglio ferirti, è soltanto un parere. Per parlare.”

Lo so è per parlare. Lo so. Tengo la cornetta tra il mento e il collo, una delle poche volte in cui so che la conversazione sarà più o meno lunga. Non lo è sempre. Stavolta si. Parliamo di me. Della mia vita, dei miei fallimenti. La regina dei castelli di carta mi fa un baffo. Al massimo l’usciere. Regina mai. Non per lei.

“Lo sai che ti amo, lo dico per te”.

Lo so che mi ama, lo dice per me. Intanto ogni volta che tocchiamo l’argomento Me- vita- futuro-lavoro, tutto si infrange miserabilmente.

“E quindi il romanzo è fermo”.

“Si, il romanzo è fermo, Il foglio è bianco, Non ho più forza”.

 

Sono sei mesi che ci lavoro e sono ancora al primo capitolo. Non riesco a proseguire, e quando non riesco a proseguire so già che la punizione che mi merito è quella telefonata. La telefonata in cui riversare ogni crepa e tutti i tracolli. Sei mesi come una parabola, flash, un progetto, la spinta, l’entusiasmo. La fine. Quando succede sei diversa, all’inizio sei una lampadina che illumina tutt’intorno. Si vede che l’illuminazione aveva colto un po’ ovunque, tanto che non c’era solo il progetto del romanzo, c’era dell’altro. C’era una nuova forma di vita che finalmente prendeva vita. La vita piatta di un’autrice che aveva pubblicato ma era finita tra tanti, a ruotare per festival e qualche incontro, la solita routine le solite facce. Le solite liti da dietro le quinte, del tipo “Non ci sono stasera, faccio tardi pensi tu a scaldare qualcosa…” Non c’era una sola volta in cui con Luca non ci si scontrava per gli orari per le cose da incastrare. Soprattutto da quando dal correggere quelli degli altri ero passata ad occuparmi dei miei di libri. Piano era iniziata la discesa agli inferi, delle facce storte delle mezze frasi, dei salti nel vuoto. Il primo romanzo, aveva avuto un discreto successo, ma il primo romanzo è quello che rompe il ghiaccio e dopo è più difficile, spiegare “E’ quello che voglio fare. No, non è stato un caso. Sì ho cambiato casa editrice, sì ricomincio da zero…”

 

“Alla tua età” La frase tipica che mia madre allegava ad ogni frase. “Alla tua età, ancora a perdere tempo con queste cose, capisco le passioni però…”

 

Però non ci paghi le bollette, non ci compri scarpe e non ci fai la spesa. Nulla da ridire, ma i consigli più che consigli erano coltellate, e sale su ferite che tanto sapevo procurarmi da sola. “Ti serve un’ispirazione” II professionista della comunicazione messomi alle costole dagli editori, sempre pronto a dare consigli poco scontati del tipo “Concentrati. Leggi. Vivi”. La faccia imperterrita, la sua contro la mia. Il romanzo era partito con la spinta di una nuova volontà. Ed era ammantato di quell’aria nuova che un incontro aveva portato. Lo scompiglio che capita sempre al momento opportuno. La faccia in mezzo a mille facce che intercetti tra firma copie e presentazioni noiose, ti ferma in un istante che azzera tutto. Davide aveva l’espressione del ragazzino con la testa tra le nuvole, così giovane, così entusiasta. “Ho letto il suo romanzo, e mi ha colpito così tanto che …” Che se ne era parlato al telefono, al tramonto bruciante di una città che si riempiva di primavera, davanti a un caffè. Davanti ai sensi di colpa. “Capisci che c’hai vent’anni e io tra qualche anno sembrerò tua madre…” Era cominciata così, ed era finita in un’unica forma senza forma in cui non si capiva bene dove finisse il mio corpo e cominciasse il suo. Una maledetta bellissima rivoluzione, e una grandissima maledizione. Lui era uno studente che si e no aveva da poco terminato con l’ansia da maturità, io la maturità l’avevo dimenticata da un pezzo. Una donna di quarant’anni che aveva lasciato un lavoro mediamente sicuro per buttarsi nella passione per la scrittura, con una vita mediamente normale, un marito impiegato, una madre specchio di ogni verità. Me l’aveva letto in faccia che qualcosa stava cambiando. Lei veniva a stare da me nei fine settimana. “La tua faccia ha qualcosa di diverso. Non so cosa ma è diverso. Quel tipo che ti ha sposata arriva tardi anche stasera?” Nuvola bionda di bellezza e allure che manco un pelo da lei, mi fissava con gli occhioni verdi puntati sulla faccia, mentre con la solita inimitabile classe sorseggiava il tè delle sette. Si a lei il tè freddo ma non troppo, caldo ma non eccessivamente, andava alle sette, poco prima di cena. Lei vedova di mio padre e mai risposata, insegnante da tutta la vita di latino e greco di un liceo che praticamente l’aveva vista crescere, schiena dritta e occhi languidi quanto basta per stendere ad ogni battito di ciglia E maledettamente critica scrutatrice, indagatrice, sarcastica e velenosa, insomma adorabilmente odiosa. Su di me unica figlia riversava tutte le ambizioni di una vita mediamente normale, quasi come la mia. Ma la mia non era stata abbastanza per lei. Mai. Mio marito troppo nella media, neanche abbastanza alto per il suo standard, meglio il figlio della Pina che faceva l’assessore, con lui sì che il futuro le sarebbe sembrato roseo, molto più che con Luca che sfacchinava in farmacia, senza ambizioni, almeno non abbastanza alte per lei. Per non parlare dei figli “Se ti fossi impegnata un pochino adesso potrei portare i pupi al parco, come le mie amiche…”

 

 

“Ma tu ti ci vedi a portare le creature al parco, mamma? Dai. E poi se non sono venuti vuol dire che doveva andare così”. Fine dei soliti discorsi. L’aveva vista giusta, e ogni volta che tenevo quei vent’anni a stringermi le spalle mi sembrava di vedere il suo sguardo indagatore davanti. Intano quelle fughe improvvise, le passeggiate fugaci avevano riempito le pagine di vita e vibrazioni che ormai si erano arenate. Davide era entusiasmo e progetti erano i “Ce ne andiamo via” e i baretti da aprire sulle spiagge più disparate e la passione che con Luca, non esisteva più. Una storia senza storia che non sarebbe potuta proseguire. Una storia che sapeva di estate perenne. Ma non può essere sempre estate e non può essere fuga, per sempre. Era stata così, come finiva l’estate come si ritorna. E credevo che sarebbe stato facile e invece niente è facile. Rivedere tutta la vita all’improvviso dopo una fuga, ogni ritorno è più pesante. E ti si legge in faccia. E ti aspetta quello che avevi lasciato. E forse è quello che vuoi. Andare avanti e crederti, come nessuno ti ha creduta mai.

 

Riprendo il foglio, cerco cose lasciate a metà. Poi chiamo lei.

“Sono un po’ a terra. Il mio matrimonio è fermo come il mio romanzo”

“Se ci avessi messo più impegno” Parole come lame, che affondano e io sono burro, mi fondo senza oppormi.

“Attacco ti chiamo presto”. Vomito, mi gira la testa, programmo esami è da troppe settimane che mi sento così strana. Cerco parole, guardando un foglio.

Tengo le mani su una pancia che cresce.

“Finirà per questo inverno. No, il titolo lo deciderò poi”.

 

Abbraccio con il pensiero tutti i fallimenti, lo sguardo che riacchiappo di un marito che mi sfiora i capelli. Penso che lei non accompagnerà mai il pupo al parco, e non so come sarà. Forse lo racconterò. Di una madre e di una figlia, forse di me, di me e di mia figlia, forse sarà una femmina, e spero che sia meglio di me. Meglio di noi, mamma.








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