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06 Agosto 2016
Sindrome
di Stefania Castella



Sindrome
foto rappresentativa
della sindrome di Stoccolma

Gioco a palla, in giardino. Un rimbalzo, un altro. Una cantilena risuona nella testa. Smetto, esco, faccio un brevissimo giro con due amiche. Ci piace camminare lungo i viali, sorpassare le case, raggiungere il parco, chiacchierare. Sono in ritardo, la mamma è arrabbiata, litighiamo. Credo finisca presto. Non è così. Vado a letto e l’atmosfera è ancora uguale. Esco per la scuola sbattendo la porta, senza salutare. Quel pensiero ritornerà nel tempo. La porta che sbatte, nemmeno un bacio prima di andare. Sono abbastanza grande per andare da sola, abbastanza grande per fare come tutti. Abbastanza per non avere paura. Forse.

 

Qualcosa non mi convince, sento un brivido, vedo il camioncino, vedo quell'uomo. Penso di cambiare marciapiede. Mi dico che devo resistere. Ricordo la luce, l’odore della primavera, ricordo l’improvvisa paura. Poi il buio. Non vedo, non capisco, ho gli occhi infuocati di pianto. Mi alzo, metto a fuoco, è semibuio, conto i passi per avere un’idea dello spazio. Uno, due, trenta… Un rettangolo stretto, una finestra inchiodata, una porta blindata. Armadio, sedia, una piccola branda, bagno stretto, minuscolo. Silenzio. Un solo rumore, le pale che roteano, il ventilatore al soffitto è l’unica cosa che si muove lì dentro. Rumore di fondo che non smetterà mai.

 

Chi diavolo era? Che cosa voleva? Perché proprio a me? Avevo dieci anni, me lo sono chiesta per tutto il resto del tempo. Un giorno dopo l’altro. Sento i suoi passi lontani ovattati, so che verrà. Lo sento ogni volta arrivare pesante, il suo viso di pietra, gli occhi quasi spenti, mi guardano senza vedermi, come fossi un oggetto, parte di quell'antro schifoso. Guarda altrove, e altrove devo guardare, mai negli occhi, me lo imprime nella testa a forza di pugni. Crollo al suolo, e capisco che la vita di prima non tornerà più. Smetto di piangere, cerco di sopravvivere. Lui porta del cibo, pochissimo per volta. Non parla, ha iniziato soltanto due mesi più tardi.

 

Lo scorrere del tempo lo seguo con l’orologio regalo di mio padre per il mio compleanno. Insieme ai vestiti, l’unica cosa che mi ha lasciato tenere. I numeri scorrono, in un tempo ridicolo, fermo, ingannevole, quelli più piccoli segnano i giorni. Infiniti, opprimenti, terribili giorni. Cinque metri per due, questo il mio spazio, e non è mio, niente è mio, né il tempo, né lo spazio, né la fame, né la sete, non è mio il caldo, o il freddo. È lui che decide, che spegne le luci, che le accende quando vuole, se dormo se piscio, e piscio anche al buio. Se sfatta mi perdo nel cuscino per piangere, accende la radio che rimbomba più forte. Mi chiedo se esisto. Che senso può avere. “Non ti cercano, resterai qui con me”. Questo mi dice, da che ha iniziato a parlare. Sarò il tuo padrone.

 

Sarò la sua schiava. Smetterò di aver fame, smetterò di aver sete. Avevo dieci anni, mi manca la scuola, la mamma, le amiche, i giorni noiosi a guardare la pioggia, anche quello mi manca, in questo spazio di nicchia. Io si, forse ci credo, non mi troveranno mai più, devo solo cercare in qualche modo di esistere, cerco di sopravvivere. E piacergli, ora so che staremo insieme per sempre: “È così, o muori” mi urla ogni volta. Mi apre la porta ogni tanto, mi concede più spazio, c’è un bagno di sopra, mi posso lavare, e mai da sola. Lui mi spoglia e mi veste, mi lava, mi asciuga, come farebbe una madre amorevole, io cresco tra le sue dita smagrite. Ero una bimba, divento una donna. Resto una schiava, dormo di sopra, legata al suo letto, certe volte ai suoi piedi quando vuole anche accanto. Io sogno proibito, aspettato, voluto. Schifoso, detestato, odiato…  odiare qualcuno, come odiare se stessi.

 

Sono una donna, la donna di casa, una casa prigione con le porte sprangate. Ammaccata di botte, di morsi, di schiaffi di spinte per le scale. Se lascio un’impronta, se dimentico polvere, se rompo qualcosa. Le botte mi stancano, sfiniscono, finisco per cedere, non riesco a reagire. Non sento la forza, non cerco la voglia di provare a ribellarmi. Le voci di fuori riportano ricordi, la vita di un tempo che scorreva normale. Penso “Mi ammazzo” e provo anche a farlo, lamette scovate per casa, per caso. Un taglio sul polso, schizzi di sangue, grido, ho paura, mi trova, ripulisce, risistema, mi benda, ne prendo più forte di prima.

 

Mi picchia per rabbia, mi picchia più energico, io svengo, sono morta, mi sollevo finalmente, mi ammazza e mi riprende, mi annienta e tiene in vita, unico supremo e unica nelle sue mani, esisto. Senza, non sarei nulla. Lo sa, socchiude la porta mi dice “Vai, fammi vedere che cosa sai fare…” Barcollo, mi avvicino, la luce mi attira di fuori c’è aria c’è… il nulla, le gambe di piombo non sanno decidersi, due passi e poi arretro, ho paura ad andare. Si chiude la porta sul mondo dei vivi. E resto lì ferma nel buio che mi invade. Qualcosa si è rotto però dentro di me, al contrario lui invece ora sembra fidarsi. Si allenta la corda, Ora esco in giardino posso camminare, posso uscire ed entrare. E covare il pensiero di tentare una fuga. Entità scomposta, ora ho quasi diciott'anni. Ero una piccola cosa tra le sue mani, ora sono una donna, e so bene di esserlo. Nessuno sa chi sono, per questo si fida, nessuno ricorda, e per questo mi lascia, “Lava la mia auto che vado in città” uno squillo al telefono, mi volta le spalle. Il cancello è socchiuso, il padrone si fida. Io sento la rabbia, la forza, il rancore, l’odio, il terrore, diventare una cosa, chiedo perdono e chiedo pietà, e chiedo a Dio la forza di correre più forte di un fulmine.

 

Scatto, è un attimo, spingo il cancello corro più forte, sento che urla, che tenta di prendermi, ma io sono un lampo, non posso fermarmi. “Mi aiuti la prego” una donna mi guarda, non capisce chi sono e… “Chiami qualcuno, la prego mi aiuti. Sono stata rapita”. Mi chiamo Natasha. Ho avuto paura, di morire e di vivere, ancora la sento. Ho pianto tanto, anche quando il treno lo tranciava a metà, una parte di me, moriva con lui. Dopo mia madre, lui solo ha badato a me. Avevo dieci anni quando sono sparita, ne ho quasi trenta e cerco ancora di andare, di sopravvivere di dimenticare. Di non tremare sommersa nel buio, di smettere di odiare il rumore di un ventilatore…








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