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09 Luglio 2016
L'amico inglese
di Stefania Castella



L'amico inglese
lo sguardo di
Ben Dahlhaus modello

“Ti prego cerca di capire, ho bisogno di staccare per un po’”. Daniele fermo davanti a me, sfoggiava il suo migliore sguardo da cane bastonato. Gli ultimi mesi, ci avevano affondato notevolmente, eravamo una barca alla deriva, ognuno verso una diversa direzione. Insieme da una vita, stesso lavoro in clinica, dopo le stesse scuole, lo stesso corso. Scegliere di andare a convivere era stata la conseguenza di un percorso inevitabile. Contenti tutti, gli amici rigorosamente in comune, la famiglia, tutti, io, non me lo era mai chiesto. Sentivo però di essere stretta in una vita che era capitata senza volere, i turni da dividersi, i pranzi in famiglia la domenica, le serate davanti alla tv.

 

Tutto quello che volevo forse, era trovare una scusa per cambiare, ed era arrivata con il primo libro. Il coronamento di un sogno coltivato da sempre. Avevo sentito il bisogno di trasformare la mia vita, quel primo romanzo pubblicato era stato uno sprone a continuare. Ma forse un bello scossone alla routine era stato anche l’arrivo di Paul, uno stagista in reparto da poco. Paul, ricercatore, londinese, era stato in varie cliniche ad Amburgo, poi a Losanna, e quindi in Italia. Capelli chiari, occhi trasparenti, una pelle sorprendentemente ambrata. Spiritoso, divertente, oltre che affascinante.

 

Il feeling si era stabilito da subito, e Daniele lo aveva avvertito, da subito. Le liti ormai vertevano su un solo argomento, stare a casa era diventato pesante, stare al lavoro era diventato Paul. I suoi racconti sulla famiglia, che di origine era salentina, le esperienza fatte in giro, tutto era interessante, soprattutto era bello condividere la passione per la scrittura con lui, colto e curioso di ascoltarmi. Quando mostrandomi le foto, mi parlò della villetta di famiglia, vuota da tempo, in un piccolo paesino pugliese, la tentazione di accettare la proposta di lasciarmela per un periodo di vacanza, fu inevitabile.

 

“Potrai scrivere senza nessun disturbo, c’è una bellissima baia a poca distanza per nuotare in Paradiso. È lontana dal caos del centro, ma vedrai non ti mancherà nulla”. Dopo l’ennesimo litigio con Daniele, accettai. La mattina della partenza, alle 8, smisi di rispondere ai suoi messaggi, decisa solo ad andare, scrivere, seguendo il progetto stabilito con l’editore, finalmente libera, senza sentirmi oppressa dal lavoro, e da Daniele. Chiedere le ferie lunghe non fu un problema, se pure mi avessero minacciato con il licenziamento…Me ne sarei infischiata. Il viaggio fu lunghissimo, estenuante, due treni da cambiare orari da far combaciare con la corriera che passava raramente. Un numero impressionante di tornanti. Il paesino era arroccato su uno spuntone di montagna, eppure da lontano non troppo lontano, si vedeva il mare. Una distesa immensa di verde, gli ulivi, era tutta una meraviglia, abbandonata nel nulla la villetta si apriva dopo una curva e una ripida salita, solo un’altra costruzione di fronte, non troppo distane come avevo pensato.

 

Organizzai le prime cose, la casa era pulita sembrava essere stata ordinata da poco, avevo con me vestiti a parte, qualche scatoletta per i primi giorni, mi sistemai osservando a lungo il giardino, l’unico luogo desolato un po’ abbandonato, della casa, e pure abitato visto che subito aveva fatto capolino il musetto grigio di un micetto delizioso che divise con me un po’ del tonno che avevo pensato di assaggiare per cena. I primi giorni passarono senza scossoni. Scrivevo, sistemavo la casa, respiravo forte, ronfavo con il micio. La villetta davanti era sembrata disabitata ma quando si era accesa una lucetta all'imbrunire avevo capito che c’era qualcuno. Una figura di donna si intravedeva oltre le tende grosse appena spostate dal vento. La incontrai il giorno in cui mi ero decisa a scendere verso il mare, capii che era lei perché avevo intravisto la lunga chioma bionda, la figura snella, e perché non c’era altra anima viva in quell'Eden lontano dal mondo.

 

La salutai e mi sorrise ricambiando senza alzare lo sguardo, sembrava timida. “Mi perdoni se le è sembrato che la spiassi, sa, non c’è mai nessuno in giro. Pensavo ci fosse la ragazza della volta scorsa, vedo ogni tanto nuovi visi, un po’ poi spariscono. La villetta dove vivo con mia nonna ce l’ha prestata un benefattore. Viene raramente, ci ha ospitate, veniamo da un paesino della Romania. Meno male che ci ha accolte. Quando torna, mi mette sempre un po’ a disagio però, tanto che sto male. Quasi fisicamente…” Aveva detto tutto a raffica senza darmi il tempo di replicare, si vedeva che non parlava con nessuno da tempo.

 

Tanta confidenza, mi spiazzò, mi sembrò quasi un’assurdità, ma tutto quell'angolo di meraviglia poteva sembrare un’assurdità. La ragazza scendeva spesso a bagnarsi in quell'angolino. Mi sentii meno sola al pensiero ma con una grande malinconia addosso. Quella notte stessa, qualcosa mi aveva svegliata. Mi ero attardata a scrivere, il caldo estenuante opprimeva, le finestre spalancate accompagnavano il buio, il rumore di un auto nonostante avesse un’andatura lentissima, ruppe quell'equilibrio sospeso. Ferma davanti alla villetta di fronte, pensai dovesse essere un parente. Un senso di inquietudine mi pervase, il telefono non aveva campo come il p.c. l’unico collegamento era l’emporio in fondo alla discesa, lì c’era un vecchio telefono che poteva servire per comunicare con il mondo, e per farsi portare le pizze se si era fortunati ad avere linea sul cellulare. Io non l’avevo. E non riuscii a riprendere sonno se non nella tarda mattina quando qualcuno alla porta bussò tirandomi giù dal letto.

 

La faccia di Paul mi sorprese alquanto. Un sacchetto tra le mani e il sorriso stampato sulla faccia: “Ti ho portato le ciambelle calde, e qualcosa da mangiare. Sai saperti qui sola in mezzo al nulla…” Gli sorrisi a disagio, si era detto sola…in maglietta e mutande non mi aspettavo visite. Una doccia veloce, l’odore del caffè che l’amico aveva preparato. In costume da bagno già pronto, ci avviammo verso la baia, e mi sorprese non vedere la mia bella amica. Per fortuna quel pomeriggio era passato svelto, tra le compere all'emporio, e un giro a piedi per stradine perdute nel sole. La sera arrivò in fretta stendendosi su uno spaghetto al dente consumato in giardino.

 

Era tardi quando ci salutammo per andare a dormire, e quella notte fu agitata da incubi, un senso di oppressione, inspiegabile. La mattina ero stanca, a pezzi con una forte nausea. Lasciai Paul andare al mare da solo mentre cercavo di riprendermi dalla sensazione spiacevole. Mangiai molto poco, e cercai solo di scrivere poche righe. Fu così anche la seconda notte, e pensai che era forse per il disagio di sapere lui in casa. Paul sarebbe dovuto rimanere per un paio di giorni, in fondo era casa sua…era la terza notte che mi sentivo strana, sentire la porta scostarsi piano mi confuse. Ero in un fase di sonno leggerissimo, e vidi una sagoma, Paul con qualcosa tra le dita che luccicava. Mentre si avvicinava al mio braccio, un colpo spalancò la finestra sorprendendolo e riuscii a guardarlo bene in faccia, una faccia deformata dalla rabbia, gli diedi una spinta e la siringa tra le mani volò a terra, io la seguii per tentare la fuga, mi afferrò facendomi cadere raggiunsi le scale inciampando e piombando senza ammazzarmi per miracolo, svelto me lo trovai addosso, aveva un cavo nero lungo tra le mani cercavo di fermarlo ma era forte e determinato a stringerlo intorno al mio collo, quando qualcosa gli piombò in piena faccia facendolo urlare.

 

Il micetto che mi veniva a trovare in giardino gli si era piantato sul viso, facendolo urlare di dolore e dandomi la possibilità di scappare fuori. Nel nulla, al buio non sapevo dove fuggire, mi diressi verso la villetta immersa nell'oscurità, scavalcando velocemente il cancello, bussai disperata ma non sentire nessuna risposta mi costrinse a dare una spallata alla porta che si spalancò aprendosi nel buio. Una luce fioca proveniva solo dalla cucina. Illuminava tracce di sangue enormi sul divano, sul pavimento, feci due passi cercando di non urlare e inciampai in qualcosa di grosso che mi fece piombare a terra, la mia faccia fu di fronte alla testa bionda che avevo visto in spiaggia, spuntava dal sacco fatto con un lenzuolo, legato come fosse spazzatura.

 

Mi tirai su, con la forza della disperazione, mentre solo in quel momento mi accorsi che un braccio spuntava dallo stretto spazio che divideva tavolino e divano. Erano morte, entrambe, la ragazza e la nonna, ammazzate e doveva essere stato lui. Avrei dovuto cercare un telefono ma pensai solo a fiondarmi fuori, c’era un auto, c’erano le chiavi.. Le chiavi, nel cruscotto, finalmente una botta di culo con il solo piccolo particolare che non avevo mai guidato un auto e tutte le curve le avrei fatte dritte. Non ci pensai troppo, girando la chiave, accendendosi, i fari, illuminarono la faccia allucinata di Paul: Lui bello, ingannevole, mi aveva drogata, forse abusato di me, e adesso con una spranga aveva intenzione di finirmi come le due donne. La ragazza, forse era stata anche lei una povera vittima…

Non ebbe il tempo di fare nessun gesto, quando la grossa auto con un balzo gli passò sopra, continuai ad andare senza pensare fino alla discesa, fino all'albero davanti all'emporio, fu quello che mi fermò. Di corsa dalla casetta a fianco mi vennero incontro. E finalmente quell'incubo si dissolse. Tornare a casa mi sembrò il ritorno più bello del mondo. Daniele non chiese, mi abbracciò senza parlare, sapeva già tutto, la polizia gli aveva parlato di quello psicopatico, non chiese neanche del micio che mi aveva seguito in auto e nel viaggio. Non chiese nulla se non di restarmi accanto, anche quando mesi dopo, il pancione era bello grosso e mi chiesi se fosse l’ennesima scelta non voluta da me.

 

Smisi di pensarci solo abbracciando quel fagotto e tutto quello che era stato, era rimasto sepolto nei ricordi, smisi di pensarci sollevata dal sorriso dolcissimo dell’uomo che mi amava, del mio piccolo cucciolo appena nato e del cuccioletto accoccolato accanto a noi, quel muso coraggioso a cui dovevo la vita. Quella routine che mi aveva oppressa, adesso era l’unica cosa alla quale per nulla al mondo avrei mai rinunciato.








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