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RaccontiStefania Castella

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02 Luglio 2016
Il Dono
di Stefania Castella



Il Dono
Angelo di Monteverde
dello scultore Giulio Monteverde

Sapevo che sarebbe stato così. Via via che passava il tempo tutto quello che avveniva, che non sembrava normale, per me lo era. Che il pezzo che tentavo di scrivere restasse bloccato in chissà quale meandro di un PC che non rispondeva più. Pagina nera, stop, niente.

 

Avevo dovuto chiamare Luigi, fedele amico che sapeva di tecnologia più di chiunque altro. Sorprendendolo per la calma serafica. Acceso il portatile avrei scritto da lì. E mi aspettavo tutto: il caffè bollente sul pantalone pronto per uscire, il cellulare caduto fronte a terra vetro crepato. La tele che si spegnava all'improvviso o accesa improvvisa nel cuore della notte. Tornavano le notti insonni, l’agitazione, gli incubi. Visioni contorte, fiato perpetuo e pesante sul collo. Tutto normale. Da quel messaggio, da quando mi ci ero infilata ancora. Lì in quei luoghi, in quei ricordi in quel passato. Era così da una settimana, chissà quando mi sarebbe toccato di espiare.

 

Dormire, sarebbe stato sufficiente… -Ci vai tu a Bagnara? Quella storia della bambina scomparsa. E’ lì dove otto mesi fa si sono perse le tracce di un altro bambino. Cerca qualcosa, le famiglie sono irrintracciabili. Ormai è una settimana… Poi tu conosci la zona- Messaggio della direttrice e il pensiero “Perché proprio io?” furono un tutt'uno. Bagnara era stato luogo di infanzia, dove i pomeriggi sonnacchiosi non passavano mai. Un giro per la piazzetta, vicolo su vicolo, conoscevamo ogni angolo, ogni anfratto. Eravamo in tre o quattro, sempre insieme, ci piaceva allungarci fin sulla punta estrema, da dove si vedeva il mare da lontano e finiva la strada. Il paesino era piccolo, la lunga curva che percorreva la montagna per noi era fine delle corse, tornare indietro. Mancavo dai tempi dell’università da quei luoghi, dalla mia casa. Casa di ricordi e pesantezze, casa dove le lacrime si erano mescolate tante volte alla leggerezza dell’infanzia.

 

Mia nonna vedova a trent'anni, giovane madre di mia madre, a dividere casa con lei e mio padre. Vivevamo lì tutti e quattro, ho continuato a vivere lì, anche dopo che, su una delle curve che portavano fuori dal paese, la loro macchina un mattino di sabato, non aveva frenato. Proseguì inghiottita dal mare. Mia nonna ed io, eravamo rimaste sole. Mai veramente sole. In quella casa si respirava un’aria diversa, si sentivano rumori inquietanti, un quadrilatero distorto, l’ingresso con le porte delle stanze e un lungo corridoio che di notte non finiva mai, tanto che la pipì la dovevo trattenere se non volevo perdermi nella paura di attraversarlo tutto, per arrivare al bagno. Di notte i risvegli erano frequenti, e ogni volta lei, la nonna, era al balcone a pensare, a fumare, non dormiva mai, troppi respiri, la presenza di qualcosa di inspiegabile e quello che qualcuno diceva essere il suo dono, quello di sentire, non le dava tregua. Io non ci credevo evitavo di ascoltare il chiacchiericcio della gente.

 

Le amiche che dicevano “Dicono che la vostra casa è strana, che tua nonna è strana, pure tu sei strana?” Io no, non sono strana, mi piaceva stare sola a pensare, guardare il mare da lontano. La casa aveva occhi puntati sul mondo fuori, dentro, io, avevo una tensione inspiegabile e insieme un vago senso di protezione. Da lì ho visto ombre trasformarsi in mani che mi tiravano giù dal letto svegliandomi improvvisamente, madida di sudore. Da lì ho sentito la nonna parlare col marito, anche se era morto da vent’anni. Da lì ho visto l’ombra di mia madre venirmi a cercare ventiquattro ore dopo che era scomparsa con papà. Da lì sono andata via quando è stato impossibile restare.

 

Con la scusa dell’università. Lì di fronte al balcone di quella camera dove dormivamo, la nonna ed io, si intravedeva una casa diroccata, lì dentro con le mie mitiche amiche ci infilammo una volta sola, nonostante ci avessero detto che quella casa fatiscente era infestata. Lì vidi per la prima volta un uomo morto e ancora mi sembra come fosse adesso. Ci infilammo oltre il cancello oltrepassando un giardino cadente, spingemmo la porta di legno vecchio, e dentro ci investì una puzza orrenda. Un lungo corridoio, come quello di casa mia sembrò richiamarci, e lì nell’ultima stanza vedemmo le gambe penzolanti di un uomo che pendeva dal soffitto. Tutto questo era stato un flash che ritornava al pensiero di tornare. Lì’. Poteva andarci Davide il mio collega. –E’ irrintracciabile, ce l’ho mandato ma non so che fina ha fatto- Lapidaria la risposta della direttrice.

 

Davide praticante come me, non diceva mai no, non saltava un appuntamento, non lasciava mai nulla in sospeso. Strano che non fosse raggiungibile che non mi avesse detto niente. Anche per questo decisi di prendere la metro e andare. La stazione era quella di sempre. Assolata, piccola, piena di verde intorno. Una lunga discesa avrebbe portato infondo alla strada, alla casa della bambina scomparsa, da dove difronte si poteva vedere il mio palazzo, quello della mia infanzia. Macchina al collo scattavo foto. Il bar con la vecchia insegna, il viale alberato delle corse sceme a nasconderci nei palazzi, le prime sigarette fumate di nascosto. Un gatto bellissimo appollaiato su una balaustra. Foto, flash, una vespa sgangherata senza ruote, un vecchio modello, una carcassa che rovinava l’assetto dei marciapiedi vuoti, ordinati.

 

Un luogo da sogno, che il sole trasformava in un sogno vero, di quelli che non riesci a mettere a fuoco le cose. Attraverso vicoli deserti, non si vede un’anima, oltrepasso la via, è quella dove c’è il mio vecchio portone sempre uguale, fotografo il numero civico, la finestra del pianoterra, ci abitava una vecchia pazza, con una lunga treccia bianca, avrà avuto cent’anni a quel tempo. Fotografo il secondo, il terzo, le finestre di casa mia. Intravedo qualcosa che si apre, sembra una tenda, qualcuno che sbircia, mi distrae una folata di vento che quasi mi sbanda. Mi ricordo che la casa che devo raggiungere è infondo alla strada. Oltrepasso, silenzio irreale, la via si divide in due una lunga discesa e la vecchia casa dove c’era l’uomo impiccato è alla fine della discesa, la meta da raggiungere, dal lato opposto.

 

Mi avvio e quasi inciampo su un pallone che rotola accanto ai miei piedi, lo raccolgo, due bimbi seduti nel mezzo della via, aspettano immobili. Sorrido, faccio per lanciarla. La palla prende la discesa. Scivola lungo la strada. Cazzo la devo raggiungere, dico a gesti “Non vi muovete, ci penso io”. Cerco di fare in fretta. La discesa è piuttosto ripida, arriva al cancello, le finestre, le persiane, tutto come quel tempo, come se il tempo si fosse fermato, mi abbasso a raccogliere il pallone che ha spinto li cancello, tentata di entrare. Sento qualcosa alle spalle, un passo stride sull'asfalto, il ringhio di un cane. Mi volto, è enorme, nerissimo, coda dritta, denti di fuori. Mi ricordo i consigli della nonna “Non correre, non scappare, resta ferma, muoviti lentamente” non so cosa fare. Tiro il pallone, è l’unica cosa che mi viene in mente, sento le sue unghie grattare l’asfalto con un balzo. Sudo, muoio, mi infilo nel portone difronte. E’ l’altra entrata di casa mia, il giardino della vecchia che affacciava al pianterreno. Come cazzo ci sono finita lì, maledico Davide e il pezzo che non scriverò mai, e tutto il resto dell’esistenza, sento qualcuno che avanza. Mi volto di scatto “Che ci fai qui? Sei tornata, sei cresciuta, quanto tempo è passato? ...”

 

È una vecchia decrepita, una lunga treccia bianca mi riporta all'indietro, non è possibile, è lei? Ma quanti anni avrà? Fotografo, il flash fermerà il momento, apro il portone –corro- risalgo, non penso, voglio solo tornare a casa. Raggiungo la stazione della metro senza fiato, senza saliva, la desolazione mi inquieta ancora di più non ricordo il binario ma non m’importa voglio solo tornare a casa. Non si vede un’anima ma sento un fruscio, passi che salgono dietro le mie spalle, sento che arriva il treno da lontano prego che arrivi più in fretta qualunque sia, ovunque vada, mi sento afferrare un braccio nel momento in cui il treno è quasi fermo qualcosa mi tira più forte, non guardo nemmeno, mi infilo veloce, si chiudono le porte, non vedo nessuno. Non so neanche a chi chiedere mi sembra soltanto un lunghissimo incubo. Prendo il telefono, forse qualcuno… Spento, morto anche lui. Che culo mi dico vedo qualcuno, mi avvicino una testa bianchissima una lunghissima treccia, sento ridacchiare, corro all’indietro oltrepasso i vagoni sono in una stazione, la riconosco, esco di fretta per riprendere al volo dall’altro binario il treno in arrivo. Mi suicido verso un controllore, non ho un biglietto ma chi se ne frega.

 

Quando varco il portone di casa non mi sembra vero. Ho bisogno di una doccia, ho bisogno di pensare, di un caffè, di chiamare Davide, la direttrice. Levo le scarpe raccatto un carica batterie, non serve, il telefono è carico, sembra rinvenuto. Compongo il numero di Davide, squilla a vuoto. Penso di scaricare le foto al Pc. Sono abbastanza, le apro, una, due, tre. Alberi, vicoli, l’insegna del bar, la vespa sgangherata, un gatto, il portone e buio, niente. Le foto vanno da una a undici, da undici a sedici, come se quelle al piano numero tre di casa mia non fossero esistite. Niente. Cerco di capire mente riempio la vasca, per fare un bagno. E la sento alle spalle. Intravedo una figura piccola. Mi siedo sul bordo, non oso alzare lo sguardo. Una bimba piccola difronte a me, nel bagno di casa mia. “Ciao” parla. “Chi sei?” “Sono Felicia la bimba che stanno cercando. Grazie della palla, me l’hai riportata, ora io ti riporto qualcosa. Dammi la mano” Non lo farei ma è vicina, mi prende la mano, vedo una bimba che corre, qualcuno che ride, il vuoto sotto di lei. Una botola, un buco, un fosso, che diavolo è? “La vecchia, voleva prendermi. Voleva essere sicura che stavamo zitti io e pure quell'altro bambino, Antonio. A suo figlio ci piacevano i bambini e lei lo sapeva.

 

Lo sapevano tutti. Antonio prima di me è finito nel buco di quella casa. Dove quel mostro si è impiccato. Aveva un figlio uguale a lui. Lui giocava con noi, noi non volevamo, nessuno ci ha mai aiutati. C’era la vecchia che mi inseguiva e lui mi ha preso. Ha buttato pure me… Adesso tu mi hai portato la palla, adesso tu mi hai trovato. Il tuo amico è ancora lì”. Il telefono squillò di colpo, lo afferrai senza capire. La voce di Davide arrivava da non so quale antro. “Aiutami non lo so dove sono, stavo andando a cercare quella casa, quella famiglia ma non c’era nessuno, c’era un grosso cane, sono entrato qui e sono caduto, aiutami chiama qualcuno”. Sapevo tutto adesso. Tutto era chiaro, forse. Chiamai la direttrice e la polizia, non sapevo cosa dire, mi inventai due palle. Lì, in quella casa ritrovarono in una botola il povero Davide, cronista praticante con le gambe spezzate e lì accanto due corpicini. Due bimbi, e meno male che non ci aveva fatto caso, altrimenti sarebbe morto di paura. Esco di casa lo vado a trovare. Poverino, gli è andata che lo devono operare.

 

Come è successo? “Non lo so, c’erano due bimbi giocavano a palla, gli è sfuggita, ho cercato di riprenderla si è infilata nel cancello e un cane mi ha rincorso, sono caduto lì dentro…come ho fatto a non morire di paura non lo so” … Non lo so, Davide, proprio non lo so, so che quel pezzo non l’ho mai montato neanche dopo quando i cadaveri di due bambini dispersi sono stati ritrovati a due passi da casa… “Gli inquirenti collegano i casi, li accomunano alla vecchia storia di un uomo, un pedofilo impiccatosi nel luogo del ritrovamento anni prima. Aveva un figlio che…” Spengo la tele non voglio sentire, non tornerò più non chiederò perché le foto di casa mia non sono mai venute fuori dalla macchina.

 

Non lo voglio sapere, voglio solo dormire adesso, e forse ci riuscirò. Forse.








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