 | | genitori e figli |
Si può smettere tante cose, smettere di fumare smettere di bere, smettere di mangiare o smettere di parlare. Si può smettere di essere padri e madri, probabilmente e si va in giro trascinandosi bagagli di figli ad inciampare tra le gambe. Non si può smettere di essere figli, anche se qualche volta l’ho desiderato, desiderato fortemente. Sono figlio di una donna, madre figlia, a cui a 13 anni ho dovuto fare da padre senza avere neanche la forza di essere figlio. La prima volta che l’ho vista piangere ho sentito una fitta forte e dolorosa come quando Andreas dell’altra classe mi tira un pugno e resto bloccato dieci minuti buoni senza respirare.
Era quando l’uomo di casa e il padre ufficiale di casa, è andato via lasciandoci come cose da dimenticare. Piangeva piano scuotendo appena e spalle, la prima volta, la prima delle tante volte. Tra le mie braccia la sua testa che profumava di vaniglia la sua maestosità di madre diventava piano piano sempre più piccola. L’unica persona che aveva al fianco ero io, io e la nonna, sua madre. L’unica alla quale confidava qualunque cosa, ogni passo, ogni virgola delle sue immense lunghissime sconfinate poesie, sconclusionate sparpagliate, distratte disordinate. Mia madre non era solo triste per l’abbandono di un marito traditore, cosa che succede a tanti, era un’anima predisposta alla disperazione, esistono anime predisposte alla disperazione che cercano tutta la vita un capro espiatorio, che cercano una scusa per non sopravvivere.
La vita, per mia madre era una scusa infinitamente, scivolosamente, dolorosa. È buio, qualcosa mi tira fuori dalle coperte mi sento trascinare via mi manca l’aria quando mi succede prego e prego. Finché non mi riaddormento mi agito mi sento soffocare so che succede qualcosa, un incubo non riesco a svegliarmi spalanco gli occhi mi trascino fuori dal letto sento che c’è qualcosa, la luce fioca nel bagno, spingo busso nessuna risposta guardo nel letto non c’è. È lei, è in bagno la chiamo non risponde sono le tre di notte mia madre aveva passato l’ennesima serata a piangere sui suoi fogli, stavolta non reggo mi sale la rabbia le dico “Basta, non sopporto più niente “ per la prima volta mi guarda dritta come se avesse una lama tagliente piazzata tra gli occhi, una voce di caverna mi dice ”Vattene vattene pure, vattene via” le urlo che se me ne vado non torno più, e sento esplodere la voglia di andare, di scappare via dal buio, dalle sue lacrime perpetue da quel niente che la opprime, che ci opprime.
Mia madre è malata, e non vuole cure. Mia nonna è distate e non lo capisce, finisce che si ammala anche lei, e quando il telefono squilla di notte so che non sarà una buona notizia. “Apri questa fottutissima porta mamma”. Mia nonna non ce l’ha fatta, quella cosa le ha mangiato la vita, e piangerei se non dovessi occuparmi di mia madre chiusa al cesso. Non reggo, non la reggerò, ma come potrei mandare tutto a fare in culo e andare via se non ha altri che me adesso? Quello è stato il primo tentativo, uno dei tanti, che finiva con lei dietro una porta bianca e me a gelare sulla panca fredda e appiccicosa di gomma da masticare al pronto soccorso. Tredici, quattordici, le basette, la scuola, le ragazze, gli amici. Niente era conciliante, se andava bene usciva, scriveva, spediva racconti, sorrideva anche e cucinava pure, ma durava poco ai massimo una settimana poi tornava come prima, nel limbo, senza voglia neanche di lavarsi. “Mamma chiamiamo qualcuno” non sentiva ragioni e fingeva di stare bene e accendeva la radio e poi piangeva nel cesso.
Sento dire da qualcuno che la conosceva, che ogni tanto veniva a trovarci “Tua madre è bipolare ha bisogno di medicine”. Mia madre, ha bisogno di vivere, pensavo, ma ero solo un bambino e a volte mi faceva solo rabbia, rabbia che mi riempiva di dolore e colpa. Che non ho espiato mai. Mamma ho passato tutta la vita a studiare sperando che fosse sempre così, con te ferma ad ascoltare ogni parola con la testa in alto e la matita tra le labbra. Avrei dato qualunque cosa per fermare l’istante infinitamente lieve del tuo sorriso, e sapere che quello non era un inganno che eri veramente semplicemente felice. Mamma ti ho detto smettila di piangere smettila, e non riconoscevo quel dolore e guardavo il tuo sguardo senza vederlo veramente.
Poi non ti ho vista più. Qualcosa mi trascina fuori dal letto e il mio sudore si stempera nelle lacrime di un finale che non sarà come per gli altri. Adesso senza te non so come sarà. So che ho trent'anni adesso e ho paura, che la nostra sia una storia indelebile scritta sotto la pelle, ho paura della tua follia, della mia follia, guardo il mio sguardo riflesso allo specchio e ti vedo, adesso riconosco la tua disperazione, guardo il vuoto e ti capisco mamma, non potrei vivere un altro giorno in più senza più vita. Senza più vita. Credo che smetterò di cercare di affannarmi, di tentare di tenere la testa fuori dall'acqua che mi ingoia. Credo che smetterò e credo che forse non mi perdonerai. Forse non mi perdonerai mai mamma.
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