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08 Luglio 2016
Le nostre armi quotidiane
di Gianni Pezzano



Le nostre armi quotidiane
Emmanuel Chidi Namdi

Nei paesi anglosassoni gli alunni cantano “sticks and stones may break my bones, but your words will never hurt me”, cioè bastoni e sassi potrebbero rompere le mie ossa, ma le tue parole non potrebbero uccidermi.

 

Noi figli di emigrati, italiani e non, abbiamo imparato presto durante le pause pranzo a scuola che la frase non è vera e che le parole possono fare del male più delle ossa rotte. Regolarmente sentivamo parole e frasi che ci facevano male, la migliore delle quali era “perché non tornate al vostro paese?”. Una frase strana per noi visto che eravamo nati  nello stesso paese. Non era raro, specialmente nelle scuole pubbliche soprattutto nelle zone operaie e popolari che queste parole portassero a fare a botte tra studenti. Da allora scambiando messaggi con oriundi in altri paesi ho saputo che anche loro hanno sofferto lo stesso trattamento.

 

Poi, con il passare degli anni abbiamo cominciato a capire che i nostri coetanei ripetevano le frasi che sentivano a casa dai genitori. Infatti, ci sono molti studi e ricerche che dimostrano, senza ombra di dubbio, che i bambini non hanno pregiudizi in giovane età e che siamo noi adulti a insegnare  loro che il colore della pelle, l’accento e il cognome strano sono segni degli “altri” e che “noi” siamo automaticamente “meglio” di loro.

 

Questi ricordi mi sono tornati in mente mentre seguivo la vicenda di Fermo di questi giorni. Non entrerò nel merito e nei dettagli di quella tragedia, le cronache sono contraddittorie e sarà meglio, per tutti, che aspettiamo l’esito delle indagini e dell’eventuale processo per sapere cosa abbia scatenato l’incidente e chi ne sia responsabile.

 

Però, sin d’ora possiamo riflettere sulle armi micidiali che utilizziamo ogni giorno: le parole e le offese che troppi di noi utilizzano senza capire il loro effetto e che dicono più di chi le utilizza che del loro bersaglio.

 

Possiamo partire dal fatto che la legge riconosce esplicitamente che le parole fanno del male, un male riconoscibile persino nei tribunali. Ogni denuncia ed eventuale condanna con risarcimento per calunnia e diffamazione è un riconoscimento inequivocabile che le parole possono fare male alla persona che diventa il loro bersaglio, quanto e a volte peggio della violenza fisica.

 

Un avvocato che difende il suo cliente dicendo “che male c’è, quelle frasi le usano anche i politici” non è e non dovrebbe essere mai una attenuante per un suo cliente. Anzi, come persone pubbliche, alla pari dei genitori che insegnano l’odio verso gli “altri” in casa, i politici dovrebbero rendersi conto che le loro parole e il loro comportamento potrebbero essere la causa di comportamenti illeciti.

 

Per questo motivo ogni politico, indipendentemente dal suo partito e linea politica, deve essere tenuto a mantenere comportamenti che riflettano la società civile che tutti noi vorremmo dai nostri rappresentanti. Purtroppo, come vediamo troppo spesso nei dibattiti in parlamento e nei salotti televisivi, come anche nelle interviste sulla stampa, molti politici parlano senza pensare alle possibili conseguenze delle loro dichiarazioni.

 

Poi, mentre batto queste parole e le rileggo per preparare il prossimo paragrafo sento tristezza perché riconosco benissimo che per molti le parole e le frasi deplorate in questo articolo sono fonte di pubblicità e sono le armi quotidiane di fin troppi politici e personaggi pubblici. Peggio ancora, e non è certamente una attenuante, questa tendenza di cercare capri espiatori tra le facce nuove non è nuova e si estende a quasi tutti i paesi del mondo, senza eccezioni.

 

Anzi, molti dei gruppi fanatici che molti temono e che spesso vengono indicati come motivo per le frasi contro gli immigrati trovano proseliti proprio nei giovani emarginati prodotti dal linguaggio violento utilizzato quotidianamente da una parte della popolazione.

 

Infatti, l’esistenza di questi proseliti che poi commettono atti barbari in nome delle ideologie dell’odio dovrebbe spingere la società mondiale a chiedersi cosa spinge giovani non solo emarginati, ma anche figli di buona famiglia in molti casi, di fuggire da casa per aggregarsi a gruppi violenti. Purtroppo le voci che fanno questa domanda sono ancora poche.

 

Peggio, qualsiasi tentativo di dirigere le inchieste sul  fanatismo verso le cause del disagio di queste nuove leve terroristiche viene bollato come “correttezza politica” e “buonismo”. Una continuazione delle parole come armi e non come mezzo di comunicazione per trovare soluzioni.

 

Leggendo i giornali, guardando  le interviste e ascoltando i vari discorsi si capisce che molti di loro non cercano soluzioni per rimediare le condizioni che creano la violenza che vediamo ogni giorno. Puntare il dito e cercare colpevoli non è trovare una soluzione. Poi, stamattina apriamo i giornali e leggiamo le cronache sul cecchinaggio alla polizia a Dallas negli Stati Uniti e ci rendiamo conto che il mondo intero, e non solo i politici, ha l’obbligo di esaminare la coscienza per chiedersi perché succedono certe cose e cosa dobbiamo fare per eliminarle.

 

Siamo oltre il limite di risposte semplici, infatti, dobbiamo affrontare come comunità internazionale le condizioni che costringono numeri enormi di persone a rischiare la vita per cercare un posto nuovo in cui abitare senza rischiare la vita nel paese di origine.

 

Come comunità internazionale dobbiamo riconoscere cosa sia davvero il concetto di profugo e non utilizzare eufemismi come “cacciatori di paesi” per deviare il dibattito via dai problemi veri e di affrontare le realtà crudeli dei signori della guerra in certi paesi e anche del comportamento dei paesi sviluppati che riescono a peggiorare le situazioni in zone calde invece di portare pace in paesi che non riconoscono più la parola.

 

Sono problemi veri e che condizioneranno il futuro del mondo intero per decenni, se non per generazioni. Ma noi, come individui, dobbiamo anche renderci conto che non troveremo mai una soluzione definitiva all'odio che vediamo nei notiziari se non siamo proprio noi a cominciare a moderare il linguaggio e a smettere di copiare i cattivi esempi.

 

In fondo, diventa un cerchio vizioso se diciamo “tanto lo fanno loro, perché non lo possiamo fare noi?” ogni volta che iniziano certi dibattiti. E chissà quanti degli adulti che pronunciano questa frase l’accetterebbero se lo dicesse un loro figlio per una sua ragazzata? Credo davvero pochi

 

Allora, se non lo accettiamo dai nostri figli,  perché ci ostiniamo a comportarci in base ai peggiori esempi, invece di cominciare a utilizzare quei comportamenti capaci di trovare una soluzione?

 

Alla fine siamo noi cittadini i veri responsabili della nostra società ed è ora che cominciamo a riconoscerlo.

 








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