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24 Ottobre 2015
Non flussi, ma persone
di Gianni Pezzano


Non flussi, ma persone

Nel corso della serata del Premio Dragut dedicata al tema dell' emigrazione/immigrazione, mentre aspettavo il mio turno, ascoltavo i discorsi degli altri relatori. Erano storici, ricercatori e anche persone che  avevano vissuto direttamente questa esperienza. 

 

Mentre parlavano mi sono reso conto che quasi tutte le relazioni avevano preso una piega “scientifica” sul tema, cioè parlavano in senso astratto di flussi sociali ed economici. Fino a quel punto non sapevo più cosa volevo dire quando fosse arrivato il mio turno, ma di lì a poco sapevo il messaggio che volevo dare in quella serata al paese di mia madre. Sarebbe stato facile per me fare altrettanto, e a parte uno di questi relatori, nessuno ha espresso il pensiero più semplice del fenomeno che ha cambiato la Storia dell’Uomo: i protagonisti dell’emigrazione e immigrazione sono esseri umani, uomini e donne che per qualsiasi motivo hanno deciso di lasciare i luoghi dove sono nati e cresciuti e dove sono sepolti i loro genitori e nonni, per andare in un luogo nuovo dove rifarsi una vita.

 

Controllando il dizionario Treccani quella sera ho visto che definisce la parola emigrazione come “ Fenomeno sociale in base al quale singole persone o gruppi si spostano dal luogo d’origine verso un’altra destinazione, solitamente con la finalità di reperire nuove occasioni di lavoro”.  Il fenomeno dei profughi non cambia poi più di tanto questa definizione perché guerre e disastri distruggono il lavoro nei paesi colpiti e le famiglie devono trovare il miglior modo di potere vivere.

Infatti la definizione coglie il punto centrale che è alla base del fenomeno che domina i giornali da tanto tempo. Cioè che sono persone e quando parliamo di integrazione degli immigrati e dei profughi dobbiamo iniziare da quel concetto.

 

Se trattiamo i nuovi immigrati come oggetti e non come persone diventa sempre più difficile trovare il miglior modo di facilitare la loro integrazione nella nostra società. Le motivazioni per la partenza dai paesi di nascita, la loro educazione, le esperienze personali di ciascuno di loro devono essere considerate da chi deve facilitare questo processo.

 

Naturalmente la prima tappa di questa integrazione inizia con la lingua italiana e la facilità con cui l’immigrato apprende la sua nuova lingua dipende dalla sua educazione. Gli emigrati italiani nel corso degli ultimi centocinquanta anni hanno capito questo concetto perché moltissimi di loro parlavano solo il dialetto e non l’italiano. È più facile insegnare una lingua nuova a chi capisce le regole della grammatica della proprio lingua che a coloro che non hanno frequentato la scuola. 

Inoltre, dobbiamo considerare che per molti di loro la prima priorità deve essere, più della lingua, trovare un posto di lavoro. Purtroppo questa situazione permette ad alcuni datori di lavoro di poterli sfruttare, magari impegnando un connazionale come caposquadra che dirige operai che non parlano la nostra lingua. In questi casi, soprattutto nei casi di lavori logoranti, sia in fabbrica che nei campi, diventa fisicamente difficile, se non impossibile, poter trovare il tempo e l’energia per studiare la sera. Infatti, in Australia, conosco molti immigrati italiani che per questo motivo, malgrado decenni di residenza in quel paese, hanno soltanto una conoscenza minima della lingua. Dobbiamo imparare da queste esperienze per evitare sbagli del genere. 

 

Poi, le qualifiche formali e le esperienze di lavoro degli immigrati svolgono  un ruolo importante per poter trovare lavori dove potranno dare il massimo dell' impegno. Il sistema di collocamento deve essere in grado di riconoscere le capacità di ogni persona che arriva in questo paese. Spesso questo non è un compito facile da svolgere, però aiutare il nuovo arrivato a trovare un lavoro degno delle sue qualifiche e capacità aiuta a sistemarlo nel migliore dei modi.

Nei casi delle mogli che spesso non lavorano, le autorità italiane dovrebbero incoraggiare le varie nazionalità presenti nel nostro territorio a formare gruppi di sostegno, inizialmente per lezioni di lingua, ma anche per aiutare coloro che si trovano in difficoltà nel trovare il tipo di assistenza più adatta alle loro esigenze.

Nello stesso tempo, quando parliamo dei problemi legati all'integrazione dobbiamo pensare anche ai loro figli, siano essi nati all'estero che  in Italia. Se vogliamo che questi giovani abbiano un ruolo attivo nel nostro paese dobbiamo considerarli come parte della nostra comunità e non solo nel senso formale.

Le lezioni più importanti che vediamo in paesi come la Francia, l’Australia e altri paesi di immigrazione è che se continuiamo a trattarli come stranieri ed emarginati rischiamo di creare le condizioni che spingono questi giovani ad avvicinare i gruppi fanatici. Basta citare gli esempi di “Jihadi John”, il notorio boia del Medioriente, come anche degli assassini dell’attentato a Charlie Hebdo a Parigi per capire che l’emarginazione dei giovani è il pericolo più grande da affrontare e non il fenomeno dell’immigrazione in se stesso.

 

Come sempre la soluzione viene dall'educazione, sia dei giovani che dei genitori e di tutti coloro che lavorano con le comunità straniere in Italia. Come paese dobbiamo eliminare l’ignoranza e la paura dell’ignoto che fa crescere la xenofobia che vediamo in alcuni elementi della popolazione.

 

Come paese dobbiamo capire che nessun paese rimane uguale per sempre e che i cambiamenti che vediamo a causa dell’arrivo dei nuovi residenti fanno parte dei cambiamenti naturali di qualsiasi paese. Basta vedere i film italiani degli anni quaranta e cinquanta per capire quanto sia cambiato il paese anche senza queste ondate recenti di immigrati. Poi, parlando di film, è interessante ricordare che quel che aveva creato il disagio degli alloggi, che era all'origine del film “Arrangiatevi!” con Totò e Peppino De Filippo, era l’ondata di profughi provenienti dagli ex territori italiani catturati dalla Jugoslavia alla fine della Seconda Guerra Mondiale e dunque che questo tipo di emergenza non è nuovo per il paese.

Infine, il tema di cittadinanza è delicato, ma rifiutare di accettare i nuovi arrivati come cittadini in questo paese, oppure rifiutare di riconoscere i figli di immigrati regolari  che abbiano fatto la scuola qui e trattarli come esseri inferiori rispetto ai loro coetanei fa male a tutti. Se davvero vogliamo che i nuovi immigrati facciano parte della vita quotidiana del nostro paese dobbiamo riconoscere che la cittadinanza è un simbolo importante, sia per loro che per il paese stesso. Il fatto che milioni dei nostri connazionali emigrati abbiano fatto questo passo nei loro paesi di residenza dovrebbe fare capire l’importanza del riconoscimento.

 

L’immigrazione è troppo importante per  lasciarla annegare nei  luoghi comuni e nei timori dell'ignoto. Ricordiamo che quando parliamo dei nostri nuovi vicini di casa parliamo di esseri umani che vogliono quel che vogliamo tutti, ovvero creare una vita migliore per loro e i loro figli, nulla di più e nulla di meno.

 








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