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Cultura - SocietàGianni Pezzano

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21 Luglio 2015
Una procedura difficile, ma essenziale
di Gianni Pezzano



Una procedura difficile, ma essenziale
Sacco e Vanzetti

Quando ero giovane mentre parlavo con mia madre in italiano su un mezzo pubblico, o per strada, spesso ci sentivamo dire che eravamo in Australia e perciò dovevamo parlare in inglese. In quegli anni la politica australiana verso gli immigrati era di assimilazione che vuol dire la distruzione dell’indentità dell’immigrato. Dopo un paio di decenni di immigrazione massiccia il governo australiano si rese conto che la politica più efficace per il paese era l’integrazione.

 

Bisogna riconoscere che l’immigrato abita in due mondi. Il primo in casa con la lingua e le usanze del paese d’origine e il secondo fuori casa nel suo paese di residenza e questo è del tutto naturale. Basta pensare alle comunità italiane all’estero e l’orgoglio nazionale di come i nostri emigrati hanno trasmesso la nostra cultura e la nostra cucina e i prodotti in tutti i continenti. Per questo motivo bisogna chiedersi il perché dell’insistenza di tanti che i nuovi arrivati nel Bel Paese  debbano perdere la loro identità.

 

Ora in Italia ci troviamo in un periodo di integrazione e non è facile, come potranno testimoniare gli immigrati meridionali nelle regioni settentrionali del paese, ma non è certamente impossibile.  Ma questa procedura sarebbe agevolata se tanti capissero che la tolleranza e il rispetto per il vicino nuovo che è la base dell’integrazione devono essere reciproci.  

 

Spesso mentre leggo i social media e quando parlo con amici e conoscenti mi sento d’essere tornato indietro nel tempo all’epoca della mia gioventù australiana. Sento le stesse frasi, gli stessi luoghi comuni e gli stessi timori verso gli immigrati che sentivo verso la mia famiglia nel quartiere popolare della città dove sono cresciuto. Parlando poi delle loro esperienze con amici in altri paesi capisco sempre di più che le esperienze dell’immigrazione e dell’integrazione degli immigrati in effetti non cambiano molto da paese a paese.

 

Per fortuna in Australia e in Italia non abbiamo avuto linciaggi di immigrati come hanno subito alcuni nostri concittadini negli Stati Uniti, in Francia e in altri paesi. Però si sente chiaramente il timore del nuovo volto e dello sconosciuto che fa nascere la xenofobia che genera violenza. La cosa più triste è  vedere che questi timori portano sempre a creare i problemi che vogliamo evitare.

 

Nei primi decenni del 900 molti emigrati italiani, soprattutto negli Stati Uniti, venivano da zone che erano preda della criminalità organizzata. Volevano abitare in un paese dove potevano lavorare senza paura di ricatti e minacce e dove il loro figli potevano crescere in libertà. Il colmo fu che in quei decenni il razzismo aperto e spesso anche ufficiale verso gli italiani costrinse molti di questi verso quella vita criminale che prima detestavano. Il film Il Padrino 2 ci fa vedere benissimo questo fenomeno. 

 

Peggio ancora, in un parallelo con le notizie mondiali del mondo d’oggi, i terroristi di quegli anni erano gli anarchici che avevano compiuto molti attentati e assassinii. Come sappiamo, molti di questi anarchici erano italiani e allora gli immigrati italiani hanno subito ancora di più pregiudizi, soprattutto dalla polizia e dalla politica, a causa di questa minoranza violenta. Il caso più famoso di questo pregiudizio verso gli anarchici italiani è senza dubbio quello di Sacco e Vanzetti che furono giustiziati con la sedia elettrica nel 1927 in Massachusetts.

 

Un giorno all’università trovai l’archivio di questo processo e rimasi fulminato dall’odio aperto di un processo che chiaramente non era tanto contro due imputati, quanto contro una nazionalità e un’idea politica. Un esempio ovvio successe durante l’interrogatorio di Bartolomeo Vanzetti, un pescivendolo, quando il pubblico ministero lo accusò di mentire sotto giuramento perché alla domanda cosa faceva il giorno del delitto rispose che vendeva anguille. La reazione del pubblico ministero fu fulminante, “Impossibile, gli esseri umani non mangiano le anguille!”. Tali erano evidenti le inconsistenze del processo e i pregiudizi verso gli imputati che nel 1977 Michael Dukakis, l’allora Governatore di Massacchusetts, proclamò la loro rivendicazione da ogni accusa.

 

Il processo di Sacco e Vanzetti dimostra il bisogno di tolleranza verso gli immigrati a tutti i livelli, a partire da quelli ufficiali, e anche in questo periodo di tensione internazionale creata dall’ISIS in Siria ne abbiamo una prova schiacciante.

 

Nei paesi occidentali colpiti dal terrorismo islamico troviamo che gli attentatori, come anche una parte del cosidetti “foreign fighters” per l’ISIL, non sono immigrati ma figli e nipoti di immigrati, nati e cresciuti in questi paesi, giovani spesso emarginati dai loro coetanei. Per di più, un numero non indifferente degli arruolati non sono di origine musulmana e vediamo tra questi giovani di origine italiana, come il figlio del poliziotto arrestato in questi giorni negli Stati Uniti e alcuni dei fighters australiani. La presenza di questi nuovi mercenari radicalizzati non sono una prova del fallimento degli immigrati, ma una prova del fallimento delle capacità dei paesi occidentali nell’accogliere i nuovi arrivati. Inoltre, la presenza di questi emarginati non è segno tanto della forza dell’ISIL, quanto un segno forte della crisi di fiducia verso la democrazia che vediamo in molti paesi, compreso il nostro.

 

Chiaramente questi paesi ora hanno l’obbligo di chiedersi come mai che questi ragazzi tormentati siano aperti alle tentazioni di operare con un gruppo estremista violento. Bisogna chiedere anche se il razzismo in questi paesi ha contribuito alla loro emarginazione e dunque contribuito a questa loro scelta. Sono domande da fare non solo per ridurre il numero di arruolati all’estremismo, ma anche per trovare il miglior modo di integrare la stragrande maggiornaza degli immigrati che cerca semplicemente una vita nuova e prosperosa per i propri figli.

 

La presenza di nuove religioni e di nuove idee portate dagli immigrati non devono intimorire la popolazione dei nuovi paesi di residenza. Le esperienze di paesi come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia dimostrano che l’immigrazione aiuta il paese a crescere, culturalmente ed economicamente. I nuovi arrivati oltre a portare nuovi talenti e capacità, aiutano anche ad aprire mercati nuovi nei loro paesi d’origine per il paese di residenza. In questo modo gli immigrati aiutano entrambi i paesi.

 

 

Inoltre, dobbiamo anche capire che l’integrazione diventa più difficile quando alcuni politici populisti, non solo in Italia, cercano di utilizzare gli immigrati per motivi di politica interna. Peggio ancora, i loro discorsi creano le condizioni di scontro culturale che dicono di temere. La strage di Anders Breivik in Norvegia nel 2011 non era solo il risultato del suo dichiarato odio verso i nuovi immigrati, ma anche la prova che i terroristi non appartengono a una solo nazionalità e che ogni paese corre il rischio di produrre terroristi, come alcuni populisti vogliono far capire..

 

L’integrazione è una procedura fondamentale per  il nostro paese e la sua realizzazione non deve essere limitata solo agli immigrati. Dobbiamo tutti lavorare insieme per assicurare prima di tutto che il nostro paese cresca con il contributo dei nuovi residenti, ma soprattutto per garantire di evitare le violenza che ha già creato sin troppe vittime in giro per il mondo. 








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