 | Federico da Montefeltro e sua moglie Battista Sforza |
Novanta minuti di macchina separano Faenza da Urbino per vedere lo studiolo di Federico da Montefeltro per gli ultimi giorni del suo ritorno di gloria.
I quattordici ritratti che ora appartengono al Louvre sono tornati a casa per mostrarci in tutto il suo splendore quella stanza unica. Il viaggio valeva davvero la pena perché ha dato l’opportunità di tornare indietro nel tempo e di capire che nel corso dei secoli abbiamo perso un linguaggio non parlato che faceva parte della vita quotidiana dei nostri predecessori.
Oggigiorno nessuno metterebbe in dubbio la bellezza di Urbino, però dopo la visita al Palazzo Ducale cominciavo a pensare come doveva essere per gli ambasciatori andare a visitarla quando Federico da Montefeltro era all’apice del suo potere e che cosa averebbero visto e capito mentre il guerriero e mecenate ospitava i suoi ospiti illustri, fossero amici o nemici.
In auto si fa il tratto tra Pesaro e Urbino in circa trenta minuti e il turista moderno si trova a parcheggiare vicino alle mura quasi senza accorgersi d’esserci arrivato. Dopo pochi minuti a piedi, magari dopo essersi fatto un caffé ristoratore entra nella città e, seguendo la segnaletica, in pochi minuti si trova alla porta del Palazzo Ducale. Ma non era cosi per gli ambasciatori di una volta. Nel cinquecento quello stesso viaggio sarebbe stato molto più lento a causa di strade rudimentali, le esigenze della scorta del personaggio e probabilmente a causa della lentezza delle carozze delle eventuali dame che l’accompagnavano.
Perciò gli ospiti d’onore in visita potevano vedere Urbino già molto tempo prima di arrivarci. La prima cosa che avrebbe colpito la scorta era la grandezza della mura e non avevano bisogno di molta fantasia per capire che stavano per arrivare in una città ben protetta con un Duca che era uno dei migliori capitani di ventura della sua generazione. I soldati in missione di pace avrebbero sentito sollievo al pensiero di non dover aggredire quelle mura e di mettere a prova le loro resistenza.
Ma gli ambasciatori vedendo quella scena avrebbero visto un altro dettaglio che avrebbe spiegato molto a chi non conosceva personalmente il Duca che l’uomo non era un semplice soldato, ma un uomo con ricchezze e potere. Questi ambasciatori avrebbero notato che in cima alla città non c’era più la vecchia rocca, ma un palazzo moderno in tutto lo stile rinascimentale e al suo fianco una cattedrale imponente. Il messaggio era chiaro, in questa città Duca e Chiesa lavorano insieme.
Senza dubbio a questo punto il gruppo in arrivo aveva già una scorta urbinate. Da chi comandava la scorta, insieme alla tenuta e l’atteggiamento di questa scorta gli ambasciatori e le loro guardie avrebbero capito subito il grado di calore della loro accoglienza dal Duca. Sicuramente la reazione dalla popolazione di Urbino all’arrivo degli ospiti avrebbe confermato o smentito queste impressioni.
All’entrata del Palazzo Ducale gli ospiti, stanchi e ansiosi dopo un viaggio lungo che probabilmente aveva come tappe rocche come Gradara, Forlì, Castrocaro, Rimini, o San Leo, sarebbero stati colpiti da un Palazzo che mostrava tutta la bellezza e lo stile del Rinascimento italiano. Sin dall’inizio non avrebbero avuto alcun dubbio su chi era il signore del Palazzo. Il suo stemma all’entrata e la statua del Duca vestito da Cesare con l’iscrizione dei suoi titoli che comprendeva non solo il Ducato di Urbino, ma soprattutto il suo titolo di Gonfaloniere dello Stato della Chiesa, gli ambasciatori avrebbero capito che non dovevano trattare con un aristocratico semplice, ma con un uomo che aveva ottenuto i suoi titoli e ricchezze tramite il mestiere delle armi.
La conferma viene di stanza in stanza dove gli ospiti potevano vedere l’aquila nera dello stemma e il nome del Duca seguito dalla parola Dux. Nella sala del trono gli ospiti avrebbero visto inciso sul cammino gli stemmi dell’Ordine dell’Ermellino conferitogli da Ferrante di Aragona e l’Ordine della Giarrettiera concesso da Enrico IV d’Inghilterra. Simboli di potenza, ma anche di alleanza ed amicizie importanti nell’Italia dell’epoca. Però sarebbe stato uno sbaglio altrettanto serio per gli ambasciatori trattare Federico come un semplice capitano di ventura.
Federico era capace di lottare con le parole come i suoi soldati con le loro armi e lo studiolo soggetto della mostra era il punto di incontri privati con gli ospiti illustri che comprendevano re, duchi, papi ed imperatori. La stanza è piccola, ma piena di simboli e messaggi che dichiaravano le intenzioni del Duca più di qualsiasi linguaggio parlato.
Sulle pareti gli ospiti illustri potevano vedere 28 ritratti dei migliori dotti di tutti i tempi e avrebbero capito che il Duca era in grado di parlare di ciascuno di loro con abilità e una profonda conoscenza delle loro opere. Gli intarsi in legno sono complessi e di fianco ai libri ci sono paesaggi ed animali come anche armature e armi. In un caso il quadro dimostra un pugnale semplice ma efficace, in mezzo a un numero di libri. Il messaggio era chiaro, “Sono un guerriero, i libri e l’Arte sono armi quanto le armi che so utilizzare con bravura. Capisco le idee dei dotti, ma non esito a scendere all’uso delle armi per ottenere quel che voglio”.
In inglese si utilizza il termine di “Renaissance man” e di solito il modello ideale è Lorenzo di Medici, ma Federico Da Montefeltro non era da meno. Visitare il Palazzo Ducale è come leggere il libro della vita del Condottiero. Le opere d’arte, l’archittettura e la bellezza si mischiano con le immagini di armi e scudi che si trovano in ogni stanza, persino in quelle della Duchessa. Si capisce benissimo come gli uomini in questo periodo storico del nostro paese abbiano potuto forgiare una nuova visione del mondo e potuto fornire agli artisti i mezzi per poterla realizzare.
Purtroppo, non facciamo più queste letture di simboli. Ormai nel nostro mondo di messaggi veloci i simboli sono quelli della pubblicità e della politica, facili da ricevere e da accogliere. Ma nel Medioevo dove i personaggi si parlavano in latino quando non avevano una lingua in comune, i simboli e le immagini erano un mezzo per trasmettere messaggi capaci di lanciare guerre, come di evitare conflitti.
Chissà quando potremo vedere di nuovo lo studiolo in tutto il suo splendore, ma anche senza i quattordici dipinti tornati a Parigi potremo vedere il Palazzo e leggere i messaggi conservati tra le sue pareti.
Però non dobbiamo pensare che questi messaggi siano contenuti solo in un Palazzo. Quando visitiamo le nostre città ogni palazzo conserva messaggi simili e dobbiamo cominciare a rileggere questo linguaggio ormai perso perché non tutto è ovvio all’occhio del pubblico moderno. Ogni oggetto, ogni simbolo ci dà un messaggio e nel ritrovare questo linguaggio impareremo a leggere la nostra Storia in un modo nuovo.
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