 Non ho mai scordato il suono del cancello chiudersi dietro di me dopo la prima visita al carcere, era come nei film e incuteva paura. Peggio ancora, pensavo all’uomo che avevo conosciuto qualche ora prima che mi guardava mentre facevo le azioni che lui non poteva fare, uscire e andare dove volevo. In quegli istanti ti rendi conto di quanto sia preziosa la libertà. Ero andato al carcere per conoscere D di persona in attesa del permesso ufficiale di poterlo intervistare per un libro, un permesso che non arriverà mai.
D fu arrestato il giorno del diciannovesimo compleanno per l’assassinio dei suoceri. Per un ragazzo di quell’età la condanna a quasi trent’anni di carcere equivale a una condanna a vita.
Quella di D è una storia quasi da romanzo. Era venuto in Australia una decina di anni prima in seguito alla morte del padre e dei fratelli in una faida. Infatti, i fratelli furono uccisi al cimitero mentre portavano fiori alla tomba del padre. La madre, disperata di perdere l’unico maschio rimasto, lo inviò da parenti in Australia. Al suo arrivo si innamorò della figlia dei cugini e dopo qualche mese chiese di sposarla, i genitori dissero subito si, ma a condizione che lui facesse parte della loro setta. Nella sua ingenuità da diciottenne non esitò ad accettare e in meno di tre mesi si sposarono.
Purtroppo non si rendeva conto degli obblighi che quella setta esigeva ed entro poche settimane della nozze cominciò a saltare le preghiere più volte al giorno e alle funzioni regolari alla loro chiesa. Così iniziarono i litigi con i suoceri che pretendevano che lui obbedisse ai loro ordini. Lui era isolato, non conosceva l’inglese e gli unici italiani che conosceva erano anche loro fedeli della setta. Infine i suoceri minacciarono di farlo divorziare dalla figlia e di rispedirlo a casa dove non era ancora sparito il rischio della faida. Un giorno trovarono i suoceri morti a letto.
Questo era quel che avevo saputo dai giornali, ma sapevo che dietro l’orrore di quei morti doveva esserci una storia umana di dolore e solitudine. Non avevo la minima intenzione di giustificare un reato che lui non aveva mai ammesso di aver compiuto, ma volevo capire cosa era successo davvero. Nel corso dei tre anni che l’ho incontrato regolarmente non disse niente direttamente, ma quando chiese un giorno“Come poteva un diciottenne fare una cosa del genere?” capii che la sua storia nascondeva dettagli che potevano insegnare dove ti porta il dolore e la solitudine. Poi la conferma quando disse sottovoce,”Quando picchi sempre un cane e il cane ti morde, di chi è la colpa?”.
L’interprete al processo era un mio amico e da lui seppi che durante le indagini la polizia trovò un registratore sotto il letto che D condivideva con la moglie, un dettaglio che faceva capire le condizioni di vita di quel giovane sventurato. Ho saputo anche che negli ultimi mesi in quella casa D non aveva nemmeno il passaporto che lui aveva consegnato ai suoceri all’inizio della procedura per chiedere la residenza permanente. D era solo in tutti i sensi, in un paese dove non parlava la lingua e dove non aveva contatti tranne che con le persone con cui viveva e litigava.
Naturalmente in carcere il suo dolore continuava, soprattutto all’inizio quando fu punito dai secondini che non credevano che non capisse l’inglese. Le condizioni sono migliorate solo dopo l’intervento degli adetti al consolato d'Italia che riuscirono ad ottenere lezioni d’inglese per lui da parte dalle autorità carcerarie. Questo intervento consolare non fa altro che rafforzare la convinzione che quei morti erano evitabili. In un paese dove esistono servizi capaci di aiutare gli isolati e dove assistenti sociali parlano le lingue dei loro assistiti una situazione del genere poteva avere un’altra fine.
Si, D aveva rotto il comandamento più forte, non ammazzare e per questo meritava il castigo, però tutti quelli coinvolti in questa vicenda, come in tutti i casi di violenza domestica, hanno l’obbligo di fare i passi necessari per aiutare chi si perde in quei cerchi viziosi che portano alla morte.
D ha utilizzato gli anni in carcere per cercare di preparare il suo futuro in Italia dopo la scarcerazione, quando verrà deportato come non residente. Ha imparato due mestieri, il giardiniere e il cuoco. Infatti, svolge la seconda attività in carcere per guadagnare i soldi per comprare i pochi lussi concessigli.
Quando gli ho chiesto perché non chiedeva di fare carcere in Italia, così almeno si poteva trovare vicino alla madre e alla sorella la risposta era semplice ma potente. “Voglio la fedina penale pulita in Italia, altrimenti come potrò trovare lavoro?” Non credo sarà cosi facile, dovrà pur sempre spiegare cosa faceva in quegli anni in Australia quando cercherà lavoro e sicuramente le Forze dell’Ordine in Italia saranno avvisate del suo passato quando arriverà in Italia sotto scorta.
Andare a trovare qualcuno in carcere poi ti rinforza l’idea di cosa vuol dire non essere libero. Quasi tutte le visite erano al carcere di minima sicurezza dove si svolgevano in una zona spaziosa che assomiglia a una grande sala con i disegni dei figli di altri detenuti sui muri e dove potevamo anche mangiare insieme. Se non fosse per la barriera altissima intorno potevi pensare d’essere in una scuola, ma non avevi dubbi di trovarti in un carcere.
Le cose erano ancora peggio nelle due visite al carcere di massima sicurezza vicino alla capitale statale dove si trovava per visite mediche. Gli orari non erano flessibili, le visite erano controllate al minuto e lui rimaneva incatenato al tavolo per i quarantacinque minuti dell’incontro. Esci da quelle visite ben conscio del prezzo che paghi per l'aver commesso reati.
Ogni volta che lo incontravo uscivo dagli incontri con lo stesso pensiero di cosa avrei fatto in una situazione del genere a quell’età. È una domanda senza risposta, non solo perché non siamo tutti uguali, la risposta più banale, ma soprattutto perché ho avuto la fortuna di non trovarmi ad affrontare situazioni del genere, a partire dalla faida che iniziò il giro di morti.
Non lo vedo da anni, ma so che il castigo sta per finire, a meno che non sia uscito in anticipo. Mi chiedo cosa penserà dell’Italia che non vede da quasi trent’anni, anche se nel paese d’origine le condizioni che crearono la faida non sono del tutto sparite, una tragedia italiana che vediamo fin troppo spesse nelle cronache italiane.
Non scorderò mai D perché la sua storia insegna che ogni azione ha il suo prezzo e non sempre sai quel che ti costerà. Il suo è un caso estremo, ma averlo conosciuto mostra che non potremo mai capire fino in fondo cosa siamo capaci di fare quando pensiamo di non avere scelte.
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