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Cultura - SocietàGianni Pezzano

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13 Febbraio 2015
Il memoria di...
di Gianni Pezzano



Il memoria di...
Abraham Lincoln

Dopo tanti anni ho finalmente cominciato a leggere la Storia della Guerra di Secessione dello storico statunitense, Shelby Foote. I suoi commenti e le sue osservazioni erano una parte centrale della serie televisiva “The Civil War” dei Fratelli Burns. Non si possono capire gli Stati Uniti d’America senza conoscere quella guerra fraticida e mi auguro che nel prossimo futuro qualche programmatore televisivo abbia l’ispirazione di trasmetterla di nuovo.

 

Naturalmente il primo dei tre libri di Storia inizia con le biografie dei due Presidenti, Jefferson Davis degli Stati Confederati e Abraham Lincoln degli Stati Uniti. Il primo era figlio del sistema schiavista, ricco, colto e grande oratore che fu chiamato a fare il primo presidente di quel che doveva diventare una nuova nazione. Il secondo nacque povero, lasciò la casa paterna a ventun anni per farsi una vita e si finanziò gli studi lavorando come taglialegna. Infatti, un testimone dei disperati soccorsi dopo l’assassinio si meravigliò della muscolatura di un uomo che non dava l’impressione d’essere forte fisicamente.

 

Malgrado l’educazione povera, soprattutto se paragonata a quella del suo avversario, Lincoln dimostrò capacità straordinarie di gestire la guerra, ma con due frasi anche nel poter affermare le debolezze e la forza della democrazia. La prima frase faceva parte di un discorso purtroppo perso, ma le uniche parole rimaste dimostrano quelle debolezze che nel ventesimo secolo porteranno alla nascita di due dittature nelle democrazie italiana e tedesca. Cioè, “Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per tutto il tempo, ma non potete ingannare tutti per tutto il tempo”. Queste ultime parole spiegano anche le sconfitte di quelle due dittature.

Ma la frase più famosa rimane tutt’ora la migliore descrizione della forza della democrazia, “ l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo”. Quella parole furono pronunciate nel celeberrimo discorso di Gettysburg.

 

L’origine di quella guerra fu un conflitto sui diritti e poteri degli stati, soprattutto da parte di quelli del sud, che affermavano il primato degli stati sopra il governo federale. Durante la sua campagna elettorale Lincoln aveva fatto capire d’essere contrario allo schiavismo. Benché non  lo condannasse mai pubblicamente la sua elezione fu accolta con la secessione degli Stati che formarono la Confederazione di Davis.

 

Lincoln non era il primo che riconobbe che la democrazia americana nacque debole e incompleta perché una parte della sua popolazione ne era esclusa, perché gli schiavi non avevano alcun diritto legale ed erano trattati come proprietà da comprare e vendere. Però il neo presidente era l’uomo alla testa del governo che dovette gestire la crisi.

 

Fece sbagli, soprattutto nei primi anni del conflitto con la nomina di generali incapaci di vincere battaglie importanti malgrado superiorità di armi e numero di soldati. I problemi creati dalle prime sconfitte erano tali che a un punto Lincoln considerò di offire il commando del suo esercito a Giuseppe Garibaldi.

Poi con due decisioni cambiò il corso della guerra. Ovviamente la nomina di Ulysses S Grant come commandante delle forze dell’Unione fu determinante. Però la decisione più importante fu quella di rendere tutti gli schiavi liberi, dovunque si trovassero. Con la Dichiarazione di Emancipazione la guerra diventò una guerra di diritti umani e non più una guerra di sottilezze verbali e di imposte come volevano i politici della Confederazione.

 

Come tutte le guerre civili l’odio crebbe da entrambi i lati. Ci furono crimini di guerra e la detenzione dei prigionieri di guerra fu scandolosa. Tale era l’odio verso i “suddisti” che un colonello incaricato di trovare un nuovo camposanto per i caduti del nord decise di sequestrare per dispetto il terreno vicino a Washington di Robert E. Lee, il comandante della forze confederate.

Incredibilmente col tempo quel terreno diventò il luogo più sacro del paese che uscì dalla guerra. Il terreno si chiamava Arlington, ora il cimitero nazionale più importante, luogo di sepultura di presidenti, eroi, militi ignoti e di monumenti ai caduti delle guerre che gli Stati Uniti ha combatutto nel corso dei 150 anni dalla fine di quella guerra.

 

Il paese uscito da quel conflitto era cambiato. C’erano ancora problemi da affrontare, come il rapporti tra tra gli ex schiavi e i loro nuovi concittadini, problemi ancora non risolti del tutto. Però il paese post bellico si vedeva in un modo diverso. Nelle scuole prima della guerra insegnavano che “The United States of America are...” (Gli Stati Uniti d’America sono...), ma dopo il conflitto gli insegnanti l’hanno cambiato in “The United States of America is...” (Gli Stati Uniti d’America è...). Finalmente la popolazione si vedeva come parte di un grande paese e non solo parte dei loro stati di nascita.

Ma per arrivare a questo punto la perdita di vite fu enorme. I tre giorni più sanguinosi furono nella battaglia di Gettysburg nel luglio del 1863 dove caddero oltre 51.000 dei 158.000 combattenti. Senza dubbio una perdita enorme per il paese. Il governo decise che i caduti di quella battaglia dovevano essere onorati in situ e il 19 novembre di quell’anno alla dedicazione del cimitero nazionale Lincoln pronunciò uno dei discorsi più importanti della storia. Quel giorno solo un giornalista capì l’importanza di quel discorso di solo tre minuti, ma quelle parole diedero due lezioni al mondo.

 

Il primo che un paese, soprattutto una democrazia, non può esistere quando una parte della sua popolazione non ha diritti e non fa parte del procedimento governativo, iniziando dal diritto di voto, fino ad avere ruoli importanti dell’apparato governativo. Un governo democratico esiste sono se quel governo è appunto, del popolo, dal popolo, per il popolo.

La seconda parte della lezione di quel discorso è troppo spesso scordato, come abbiamo visto in queste ultime settimane nel nostro paese.

In quelle duecentosettantacinque parole Lincoln non pronunciò mai le parole “nostri”, o “loro” in riferimento ai morti. Quegli oltre cinquantamila morti erano di tutto il paese e non del nord o il sud. Dunque tutto il paese aveva l’obbligo di onorarli. Per questo dice  che non sono i politici a consacrare il luogo, ma “I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o detrarre”.

 

Straordinariamente quando Lincoln pronunciò quelle parole la guerra non era ancora finita, ma ciò non toglie niente alla forza del messaggio. Anzi rende ancora più potenti le sue parole. Non è un caso che Lincoln sia considerato il più grande dei presidenti americani e il suo monumento a Washington luogo di pellegrinaggio per tanti cittadini americani.

 

Lincoln ci insegna che un paese ha l’obbligo di ricordare i suoi morti perchè quelle vite appartengono al paese intero e non a una fazione sola. Attenzione però, questo non vuol dire che con la morte di un soldato si possa scordare tutto. Bisogna anche ricordare le azioni dei caduti nel bene e nel male, ricordando e onorando le azioni buone, come anche riconoscendo e condannando eventuali delitti e reati di chi agisce nel nome del paese. Solo così un paese potrà andare avanti dopo qualsiasi guerra, specialmente dopo una guerra civile.

 

Con quei tre minuti di discorso l’uomo assassinato al teatro dopo la fine della guerra per mano di uno degli sconfitti diede una lezione di vita che nessuno deve scordare e che potremo onorare solo seguendo il suo esempio.   

 

Il discorso di Gettysburg:

« Ottanta e sette anni or sono i nostri avi costruirono, su questo continente, una nuova nazione, concepita nella libertà, e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione così concepita e così votata, possa a lungo perdurare.

Noi ci siamo raccolti su di un gran campo di battaglia di quella guerra. Noi siamo venuti a destinare una parte di quel campo a luogo di ultimo riposo per coloro che qui diedero la vita, perché quella nazione potesse vivere. È del tutto giusto e appropriato che noi compiamo quest’atto. Ma, in un senso più vasto, noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo.

I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o detrarre. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò ch’essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono.

Sta piuttosto a noi il votarci qui al gran compito che ci è di fronte: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra»

 








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