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02 Ottobre 2014 L'eterno straniero di Gianni Pezzano
Era più di 50 anni fa, ma come tanti mi ricordo il mio primo giorno di scuola. Non tanto perché ne avessi paura, ma perché non capivo una parola di quel che dicevano gli altri intorno a me. Il motivo era semplice: benché fossi nato in Australia, quando ho iniziato la scuola non conoscevo una parola d’inglese.
Come primogenito di tante famiglie immigrate la lingua che parlavamo in casa era quella del paese d’origine dei miei genitori, l’italiano. Nel 1960 non avevamo ancora un televisore, che è arrivato soltanto qualche mese dopo, e allora fino a quel giorno il non poter parlare l’inglese aveva avuto poco impatto nella mia vita.
La padronanza di quella lingua è venuta poi con la scuola, come anche guardando i miei programmi preferiti alla tv e, soprattutto, con la scoperta del piacere di leggere. In poco tempo ho recuperato il distacco dai miei compagni, anche se rimaneva ancora qualche pecca di pronuncia, come con i suoni "th" e "gh". Per queste pecche e altre piccole cose, come il rifiuto di anglicizzare il mio nome, senza parlare della vita familiare diversa in una zona operaia della città di Adelaide, in poco tempo sono diventato "l’Italiano". Ma questa non era la parola che utilizzavano con me.
La parola era "wog". In quei giorni non era una parola da utilizzare in discorsi civili e non penso d’essere stato l’unico della mia generazione a reagire male quando mi chiamavano in quel modo.
Ero orgoglioso delle mie differenze dagli altri, ma c’era una pressione enorme da parte degli altri alunni perché mi conformassi a ciò che consideravano la normalità. Capivo già da piccolo che eravamo diversi in quel che facevamo, per come ci comportavamo e per le nostre origini. Da mia madre ho imparato che noi italiani avevamo un patrimonio culturale che non era inferiore a quello di nessun altro paese. Questa cultura non era riflessa in quel che ci insegnavano a scuola, ma da quel che imparavamo in casa. Da mio padre ho scoperto il piacere di andare a vedere giocare la nostra squadra di calcio il sabato pomeriggio, ma la palla non era ovale come quella del calcio australiano, l'"Australian rules football", ma rotonda, e il nome della squadra era "Adelaide Juventus".
Come tanti miei coetanei, non mi sentivo completamente a mio agio nel sistema scolastico e ho vissuto anni di difficoltà, ma non era causata dalla mia capacità di imparare. Ero trattato come il "wog", il forestiero, e una parte di me voleva credere che esistesse un posto dove fossi accettato per quel che ero senza essere soggetto a pressioni per conformarmi a un modello che ovviamente non stava bene a me e nemmeno ad altri nella mia stessa situazione.
Nel 1972 la mia famiglia è venuta in Italia in vacanza e pensavo di trovare quel che cercavo nel paese dei miei genitori. Pensavo di parlare un italiano accettabile e che il mio posto fosse qui. Ma mi sbagliavo.
In Italia ero "l’Australiano". Il mio italiano non era perfetto e avevo pochi interessi in comune con i miei cugini. In compenso ho scoperto molte cose che hanno reso la mia vita più ricca, e un genere musicale che per me è stata una sorpresa e una gioia, specialmente per i testi. Questa scoperta mi ha costantemente tormentato quando sono tornato a scuola in Australia. Inoltre, ho scoperto un tipo di cinema nuovo che non cercava di imitare quello di Hollywood, ma che era per questo fonte di ispirazione. Ancora più importante è stato scoprire le ricchezze di un patrimonio personale che non sapevo esistesse.
Allora è iniziata la ricerca per la mia vera identità, che non potevo trovare solo in Australia. Ho dedicato tanto tempo a scoprire e accettare di non poter essere né l’uno, né l’altro. Sono troppo australiano per essere italiano e troppo italiano per essere australiano. Sono italo-australiano, un amalgama di due culture, e sono fiero di chi sono e di ciò che questi due patrimoni mi hanno dato per costruire la mia vita.
Tutti questi ricordi mi sono tornati con forza quattro anni fa, quando mi sono trasferito in Italia. La mia capacità di parlare l’italiano era ottima per essere nato e cresciuto all’estero e per aver fatto soltanto pochi viaggi in Italia. Sono venuto per vari motivi, tra i quali la ricerca di editori per i miei libri e per risolvere una situazione difficile con uno di questi.
Sono venuto sapendo benissimo di essere ancora "l’Australiano".
La differenza è che ora quella parola non mi fa male come nel 1972. Piuttosto, mi rendo conto che la vita mi ha dato gli strumenti più adatti per realizzare il mio sogno di scrivere e sono orgoglioso di quel che sono riuscito a fare fino ad ora. La mancanza attuale di un editore non cancella il lavoro svolto, ma mi dà l’incentivo di combattere ancora di più per i miei libri e di continuare a scrivere.
Comunque quel che ho scoperto al mio arrivo nel 2010 è stato una sorpresa, e gli anni trascorsi a leggere i giornali italiani on line non mi avevano preparato per una realtà italiana moderna che sorprenderebbe molti italiani all’estero.
Il paese che per più di un secolo ha esportato migranti in tutto il mondo non sa come comportarsi con i nuovi residenti che ora si trovano in Italia. Parlando con tanti di loro mi sono reso conto che affrontano gli stessi problemi che avevo combattuto in Australia: una diffidenza del nuovo e paura dello sconosciuto che spesso viene dal non sapere cosa vuol dire davvero emigrare.
Poi ho fatto una scoperta che mi ha convinto ancora di più delle analogie tra il vivere da emigrato in Australia e fare la stessa cosa in Italia.
Per un periodo ho avuto per vicini una famiglia nigeriana immigrata anni prima e che ha parenti sparsi in altri paesi. La situazione era simile a quella della mia famiglia in Australia con rami a Perth, Bunbury (dove sono nato), Adelaide, Melbourne e Sydney.
Come negli anni '60 e '70, quando uno dei figli di questa famiglia festeggia il compleanno, una prima comunione o un’altra occasione importante, i parenti si radunano e festeggiano insieme. Le uniche differenze con noi italiani in Australia sono nei dettagli, come l’amore dei nigeriani per il canto e le cerimonie.
Ma la sorpresa più grande, in senso positivo perché rifletteva le mie esperienze e quel che sento ancora, l'ho avuta una notte, durante una partita della nazionale azzurra nel Campionato europeo del 2012. Mentre guardavo la partita nel mio appartamento li sentivo urlare, i miei vicini nigeriani, di tanto in tanto. Ma solo al momento del gol italiano ho capito che quel che sentivo erano loro che tifavano per la loro nuova squadra nazionale. Proprio come faccio io quando gioca l’Italia (e l’Australia...). Spero soltanto che non scoprano il dolore e il conflitto di emozioni nell'incontro tra le loro due nazionali, come abbiamo scoperto noi italo-australiani nel 2006 nel quarto di finale mondiale. Quella partita per me è ancora un ricordo sportivo doloroso.
Gli immigrati che sono ora in Italia, e i loro figli, hanno cominciato a capire quel che ho scoperto a scuola in Australia tanti anni fa: non basta essere nato in un paese per farne completamente parte. I figli degli immigrati abitano in due mondi: il primo è quello dei genitori all’interno della propria casa; poi c’è quello del paese di residenza quando i figli vanno a scuola, o quando svolgono qualche altra attività. Soggetti alle leggi di cittadinanza dei rispettivi paesi, questi figli sono cittadini di due paesi. Qualcuno potrebbe pensare che questo sia illecito, o immorale, ma certamente non lo è: è una forma di legittimazione della loro realtà.
Perché loro sono veramente i figli di due culture, e l’incoraggiamento giusto li porterà a promuovere la realtà migliore per entrambi i paesi.
Sono lezioni difficili da capire per tutti. Spesso i figli non dicono ai genitori dei loro problemi e degli scontri a scuola; i genitori hanno tanto già tanto di cui preoccuparsi in una realtà economica difficile e non possono vedere o apprezzare le esperienze dei figli.
É importante che una volta imparate queste lezioni non si dimentichino. Se i figli degli immigrati vengono trattati da forestieri rischiano seriamente di diventarlo davvero per tutta la vita. Ogni gruppo che entra in un paese ha le sue capacità, le sue tradizioni ed esperienze che rendono più ricchi i nuovi paesi di residenza. Non soltanto in tema di lavoro, o nello stereotipo della cucina e dei ristoranti, ma in particolare nello stimolo per il continuo sviluppo culturale del paese.
È facile dire che la cultura di un paese è importante, ma questa non è statica e ferma nel tempo: essa apprende costantemente da altre culture e si sviluppa quando impara ciò che le altre hanno già fatto e fanno tuttora. Questo vale sempre, senza eccezioni. C’è soltanto una parola per descrivere una cultura che non impara e non si sviluppa più: "morta".
Inoltre, i figli degli immigrati conoscono le lingue e le tradizioni di entrambi i loro paesi, e questi sono elementi inestimabili per promuovere scambi di ogni genere. Mi rattristo quando parlo una lingua con un amico o conoscente per strada e qualcuno mi dice "sei in Australia/Italia, dovresti parlare in inglese/italiano". Queste parole nascono da paura e ignoranza. Ho sentito questa frase mentre parlavo con dei turisti e mi chiedo che impressione possano farsi di un paese quando sentono cose del genere. Con i miei genitori, con tantissimi parenti e amici in Australia parlo in italiano, mentre qui quando incontro amici australiani in vacanza parlo con loro in inglese. Dov'è il problema?
La capacità di parlare altre lingue è una risorsa, non un impedimento. L’intolleranza di tanti quando sentono parlare altre lingue non è che un segno della loro debolezza, non una qualità di una società moderna con la mente aperta.
Ora capisco che sarò uno straniero permanente, sia nel mio paese di nascita che in quello dei miei genitori. Definirmi così mi dà modo di spiegare entrambi, di promuoverli e, infine, di farli avvicinare. Essere capace di parlare due lingue non impedisce la comprensione, piuttosto aiuta a far capire.
Non guardiamo più al modello chiuso e limitato di quel che dovrebbe essere un paese, ma guardiamo tale paese come un essere con più facce e tante lingue (e con questo non escludo i dialetti): tutti elementi di un essere forte e vibrante. Un paese cresce perché ogni elemento che lo compone apporterà il proprio contributo a creare un paese nuovo, che cresce sotto ogni aspetto e che in questo modo diventerà sempre più forte.
Sì, sono l’eterno straniero, ma non è uno stato negativo. Sono il volto di due nazioni che molto hanno dato al mondo e che hanno regalato a me e ad altri figli di immigrati delle risorse preziose per rendere entrambi i paesi, e dunque il mondo, un luogo migliore.
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