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Cultura - Cinema e spettacoloStefania Castella

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06 Luglio 2015
Giorgio Faletti. Appunti di un anno senza...
di Stefania Castella



Giorgio Faletti. Appunti di un anno senza...
Giorgio Faletti

Giorgio, perdonerai se ti do del tu, nella semplicità della tua persona, probabilmente, l’ispirazione più naturale. 

 

Un anno dopo, il ricordo ancora vivo, l’assenza colmata dalle parole scritte, magia e potenza dell’evocazione di chi scrive. Ricordare un esordio, un personaggio che strappava una risata, e non eri solo quello. Giorgio, che eri scrittore lo tenevi stampato dentro prima che gli editori ti innalzassero alla gloria, era tutto già scritto nell'anima. In quel Sanremo di “Minchia signor tenente” era chiaro che quello che era stato fino ad allora, da allora sarebbe stato riempito di nuove cose. Non era solo il rap, il pezzo, una canzonetta come altre. Ci stavi abituando ad un cambiamento. Ascoltarti non stancava, ascoltarti, voleva dire sentire i brividi, la pelle d’oca, che via D’Amelio nessuno l’aveva raccontata mai così, con l’asfalto tremolante di chi si spende rischiando la vita “dove ci tocca farci ammazzare per poco più di un milione al mese” e parlava la tua voce, ed era la voce di chi ricordava il coraggio, di chi pagava con la vita, per la vita degli altri. Quegli uomini rimasti nelle nostre memorie, quel dolore che sapevi raccontare con la ruga in mezzo agli occhi, quegli occhi trasparenti, due tagli, finestre del fuori, del dentro. Occhi di ghiaccio limpido che non avevano bisogno di finzioni, sapevano raccontare, prove di voce, di attore, di poeta. Avevi strappato risate, ora strappavi pensieri, riflessioni e ricordi dolorosi. Acclamarono il tuo racconto, acclamarono il tuo intenso modo di “sentire”, che si esprimeva per te in sei album, e nei testi che scrivevi per gli altri, il maestro Branduardi, Fiordaliso, Gigliola Cinquetti.

 

La musica, parentesi essenziale, come tante altre parentesi di artista completo, totale, tra note, e canti di parole, la poesia dei tuoi dipinti, l’altra faccia del tuo essere. Prima del compimento, quel richiamo che avrebbe avuto enorme affermazione, e che significò vendere milioni di copie, quando nel 2002 “Io uccido” consacrava “il più grande scrittore di thriller in Italia”. “Uno come lui” diceva il maestro del genere Jeffery Deaver (suo ispiratore) “dalle mie parti si definisce “larger than life” uno che diventa leggenda”, e non sbagliava, perché Giorgio Faletti, avanzando, costruiva un percorso che diventava via via filo e legame con i suoi lettori. Stretto, forte, indissolubile. La sua salita tra gli Dei elitari della stesura, non lo trasformò in un inaccessibile divo, la sua radice restava la città della nascita e delle partenze, le sue parole, per chiunque le chiedesse.

 

Nemmeno due anni dopo, arrivava “Niente di vero tranne gli occhi” surreale, perfetto nelle descrizioni, nella geniale costruzione della storia, nei personaggi da fumetto che contornavano il giallo di un osservatore, costruttore, cesellatore di espressioni. Si accosta alla parola scritta, il cinema, e le prove d’attore sono ulteriore affermazione.

 

È una pennellata diversa quella che dipinge per il suo professore, in quella “Notte prima degli esami” per la regia di Fausto Brizzi. E la sua scrittura inizia a girare il mondo vorticosamente, non solo in Europa, viene tradotto in Cina, in Giappone negli Stati Uniti, proprio lì, in Arizona, si muove la polvere degli indiani Navajos evocati in “Fuori da un evidente destino” e nelle righe di apertura già tutta l’atmosfera legata al ricordo, la memoria come luogo, il più difficile da percorrere. “Cemento armato” esordio di Marco Martani è l’ennesima dimostrazione di profondo talento, intenso e potente, uno sguardo che sembrava messo apposta per tagliare.

 

“Hai la faccia da cattivo” gli dicono, per via di quel gelido bellissimo bagliore che era solo trasparenza, e quella dura scorza, dura prova di finzione. Funzionò bene come tutto quello che apparteneva alla sua sfera e al suo variegato modo di comunicare. Sette racconti di “Pochi inutili nascondigli” rivelava che “anche se campassi cent’anni per mia conformazione mentale ed emotiva non riuscirei mai a smettere di considerare ogni volta come la prima volta”. Probabilmente non si abituerà mai alla sua abilità di compositore, come qualunque spirito libero e creativo, risponderà con naturalità semplice, all'istinto di seguire la pulsione generatrice di un racconto come di una melodia.

 

Nessun titolo scontato nessuna trama banale. Quasi che lo spazio intorno fosse troppo stretto per contenere tutto il suo mondo, dal racconto scritto (“Io sono Dio”) quasi contemporaneo quello disciolto dietro una cinepresa, come “Baaria” capolavoro di Giuseppe Tornatore. “Appunti di un venditore di donne” il primo ambientato in Italia. E chiaro è, che ingabbiarlo in un genere, sarebbe troppo, nessuno potrebbe limitare lo spazio creativo di una così enormità di anima. Ma proprio quando avanzi credendo che la vita non riservi che sorrisi, cerchi di distrarti dalla gabbia del destino, arrivano momenti in cui ritorna l’eco di quel titolo e vorresti uscirne tirandoti fuori da quell'evidente, intollerabile, inevitabile percorso, che certe volte è così amaro, così in bilico tra lo stupore e l’amarezza.

 

La malattia, quasi una nemica fugace. Avvelena come serpe e scivola via, il dolore e la paura trafiggono il pensiero e insieme il corpo. Il ritorno da Los Angeles, avrà il sapore di un bisogno di casa probabilmente. Lottare stanca e soprattutto sentirsi traditi dalla vita che può darti tutto e niente, stanca ancora di più. Giorgio se ne è andato il 4 luglio, appena un anno fa, e in realtà il suo respiro attraversa ancora Asti nel ricordo racchiuso di un teatro, nella biblioteca a cui era legato, nell'ultimo inedito regalato ai suoi lettori.

 

Spiazzante, ancora, anche adesso da ovunque si trovi. “La Piuma” (Baldini e Castoldi) non ha il solito timbro, non ha la chiave di sempre, è il racconto, quasi favola di un artista, che sapeva far librare l’anima come quella piuma accolta, che vola, che si posa, attraversando le vite degli altri, le brutture del mondo, la vita tutta e oggi forse pensandoci, attraversando anche il tempo.

 

“Da qui ad ora” il titolo della sua autobiografia, e forse per un attimo pensammo che saresti andato via solo per un attimo, per poi ritornare, ma da qui ad ora e da allora, è stato chiaro che in realtà avresti oltrepassato l’oscurità per raccontare ancora, in un ritorno compiuto senza mai partenza. Un anno dopo, la città di Asti ha ricordato il suo concittadino con “L’ultimo giorno di sole” spettacolo di musica e parole scritte proprio dall'artista per l’attrice Chiara Buratti con la direzione di Fausto Brizzi, e la serata di Gala della prima edizione del Premio Giorgio Faletti, dedicato agli esordienti di cinema, letteratura, sport, tutto il mondo poliedrico che gli apparteneva. La memoria, il ricordo, la città natale, un pensiero indelebile.

 

E nel ricordo, tra le pagine di un tuo scritto, la frase di un Capo Navajo, quasi presentimento: “Io spero in Dio, che non mi chiederete di andare in nessun altro paese, tranne il mio”. Ad Maiora.








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