Rss di IlGiornaleWebScrivi a IlGiornaleWebFai di IlGiornaleWeb la tua home page
Mercoledì 12 novembre 2025    redazione   newsletter   login
CERCA   In IlGiornaleWeb    In Google
IlGiornaleWeb

Cultura - Cinema e spettacoloStefania Castella

CONDIVIDImyspacegooglediggtwitterdelicious invia ad un amicoversione per la stampa

05 Giugno 2015
Massimo Troisi, il ricordo di un cuore di attore ventun anni dopo...
di Stefania Castella



Massimo Troisi, il ricordo di un cuore di attore ventun anni dopo...
Troisi insieme
all'amico Benigni

“Progetti? Si sto aspettando di sbagliare il secondo film. Perché tutti dicono è difficile il secondo, allora sto aspettando di sbagliarlo così passo direttamente al terzo”.

 

Il primo era stato un successo “Ricomincio da tre”, elogio della critica e del pubblico nei primi anni ottanta portava alla ribalta lui, uno di quegli attori che non escono di scena mai. La malinconia degli sguardi, quel modo unico di parlare come masticando le nuvole, veloce e balbettante. Troisi fu lo specchio di una generazione, di un cinema che varcava i confini portando l’attore da quella periferia di Napoli al mondo.

 

Nasceva a San Giorgio a Cremano 4 chilometri da Napoli alle falde del Vesuvio in una famiglia enorme (la mia era una compagnia stabile) “sono cresciuto in una famiglia così numerosa che quando ci sono meno di quindici persone mi colgono violenti attacchi di solitudine”. La passione per il teatro nasceva subito ai tempi della scuola e veniva condivisa con gli amici che sarebbero rimasti intorno a lui anche dopo, Lello Arena, Enzo De Caro con cui compose “La Smorfia”, nome scelto da Massimo perché la filosofia napoletana era racchiusa lì, nell'attesa di un terno al lotto che ti cambia la vita.

 

Il suo cuore bizzoso lo fece penare da giovanissimo. Il primo trapianto con la colletta organizzata dal “Mattino” di Napoli e quel tic tac che gli fece compagnia per sempre, di cui parlava poco, perché non gli piaceva mostrare i suoi mali al mondo. Era tutto nel suo sguardo in quel sorriso dolce e amaro. Timido, impacciato ma fuori dagli schemi. Troisi era il nuovo che avanzava che raccontava Napoli con illusione e disillusione mescolate insieme, sapeva mostrare la sua generazione così com'era, anche senza parlare. Sapeva raccontare: “sì, a Napoli camminiamo con la chitarra, il mandolino, è bello, tutti cantano, ballano.. noi solo pizza e spaghetti, è vietato mangiare altre cose.. ” . Sapeva ridere delle consuetudini e dei vizi di un popolo che della sua indolenza ha fatto scuola.

 

Luogo di luoghi comuni, col suo nuovo linguaggio mostrava la ricerca di una nuova ventata di modernità. Massimo, come era Pino Daniele per la musica, dal cuore di Napoli alla multietnicità, la voglia di emergere, di andare oltre. Che un napoletano poteva pure sentire dentro il bisogno di viaggiare, senza dover essere per forza emigrante (lo ricorda sempre nel film “Ricomincio da tre”). Proprio con Pino Daniele il legame era stato oltre, oltre l’ombra lunga di quella montagna che incombe su chi ci vive affiancato, e riconosce della vita, questa sospensione tra la realtà, il modo i cui vivi e il modo in cui sopravvivi. Accomunati dalla passione per l’arte, per la vita, con un cuore che si rassomigliava in tanti aspetti, nel battere e levare difficile, da poeti, da umani, semplicemente umani, che sapevano di ticchettare diversamente dagli altri.

 

“O ssaje comme fa ‘o core” l’aveva scritta proprio Troisi per l’amico Daniele. Massimo non era solo attore, autore, regista, era soprattutto un poeta, dolce sensibile con un amore palpitante dentro e la difficoltà a farlo parlare quel cuore o a mostrare la sfrontatezza dell’amore. Così rideva di tutto, di se stesso, della sua timidezza, degli amori che non sapeva riconoscere, tenere, stringere. Rideva della vita, della morte, come nessun altro prima. La sua poesia non era quella della vecchia scuola di Eduardo che allungava lo sguardo amaro sui bassi di una realtà demolita dalla guerra, dalle guerre, dalle quotidianità del tempo che fu. La nuova corrente era il racconto normale dell’amore incompreso, sensibile, l’amico che non vuole capire, ragionare, che vuole soffrire da innamorato e basta, il racconto della famiglia nella quotidianità di incomprensioni di una generazione, quella degli anni ottanta, con una grande voglia di nuovo. E poi quella signora che lo avrebbe portato via per sempre protagonista intrecciata alla vita e al suo modo di essere.

 

“Morto Troisi, Viva Troisi” l’esempio più lampante della visione realistica della condizione umana a tempo determinato. “Non ci resta che piangere”, con Roberto Benigni, lanciava una strampalata accoppiata che funzionava oltre la critica, soprattutto per il pubblico, che ancora oggi ride alle battute dei due in stile Totò e Peppino, in quella “Frittole” in cui erano finiti dopo un temporale trovandosi nel millequattrocento (quasi millecinque, dicono) vincente soprattutto per l’originalità della storia. La regia di “Pensavo fosse amore e invece era un calesse” socchiudeva un capitolo che poi fu di partecipazioni in film in cui non era regista (al fianco ad esempio di Mastroianni per la regia di Ettore Scola) fino al capolavoro ultimo “Il Postino” con cui collaborò alla regia con Michael Radford in un lavoro a cui teneva tanto, tanto da non volerne rimandare le riprese pur sapendo di dover essere sottoposto ad un’operazione urgente a quel cuore che tornava a fare le bizze. Diceva di voler terminare con il suo cuore e raccontano fosse molto affaticato, che spesso aveva dovuto ricorrere ad una controfigura.

 

Quella bellissima storia (tratta dal romanzo del cileno Antonio Skàrmenta) lo coinvolgeva troppo per rimandarla e fu l’ultima opera, un testamento lasciato quasi dodici ore dopo aver terminato di girare.

 

Massimo Troisi si spegneva il 4 giugno del ’94 ad Ostia, in casa dell’amata sorella, addormentandosi senza più risveglio, congedandosi senza far rumore, scivolando via in un sonno, sogno, lasciando l’illusione che non fosse vero, che fosse uno scherzo a cui chi gli voleva bene non voleva credere: “Per me è come se fosse ancora vivo, faccio finta che ce simmo appiccecati e per questo non ci vediamo più”,  diceva l’amico Pino. Oggi sono insieme in un altro mondo parallelo magari a cantare ancora a intonare quell’ “O ssaje comme fa ‘o core.. ” e a ridere insieme di quell'enorme scherzo che è la vita.








  Altre in "Cinema e spettacolo"