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Cultura - SocietàStefania Castella

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27 Gennaio 2025
La giornata della memoria. Oggi ancora più necessaria
di Stefania Castella


La giornata della memoria. Oggi ancora più necessaria

“I believe in the sun

even when it is not shining

And I believe in love,

even when there’s no one there.

And I believe in God,

even when He is silent"

 

“Credo nel sole

anche quando non splende

E credo nell'amore,

anche quando non c'è nessuno.

E credo in Dio,

anche quando tace"

Scritta di autore ignoto sulle mura di una camera in un campo di concentramento

 

Sono passati 80 anni dal 27 gennaio 1945, quando i cancelli si aprivano sull’orrore di uno sterminio senza ragione, eppure quel tempo trascorso è un attimo, e torna immediatamente indietro specialmente quando siamo tenuti ad onorare le vittime nell’unico modo possibile: ricordandole. Come quei soldati giovani e ignari, ancora oggi restiamo senza parole quando ci scorrono davanti le testimonianze che inchiodano ad una realtà fatta di dolore, privazione della dignità, della vita. La vita che scorreva oltre il filo spinato era qualcosa che i sopravvissuti ancora oggi, non possono scacciare dalla mente.

Dachau a poco da Monaco di Baviera era stato il primo, il modello al quale gli altri campi si sarebbero ispirati. Era cresciuto a dismisura sulle macerie di una vecchia fabbrica di munizioni e liberato dall'avanzata americana in quel 27 gennaio in cui l’armata rossa marciava su Auschwitz rimandando alla storia documenti, testimonianze, immagini e quella data, che ancora oggi è memoria necessaria, onore alle vite disperse come polvere, cenere, in quell’aria impestata dall’odio.

 Fuori da quei recinti di filo spinato, la città, la civiltà, dentro il nulla e più di una volta raccogliendo voci e testimonianze la sensazione è quella di un tempo cristallizzato e la certezza di essere stati davanti ad un baratro che aveva un unico fine, quello dell’annullamento. Spogliarsi come si faceva dei panni, da esseri civili, per muoversi in panni bestiali cercando di farseli calzare addosso. Mangiare raccattando, barattando, contando i pezzetti, moltiplicandoli all'infinito per sei, per sette, per dieci compagni, ingoiare di nascosto dagli altri e sentirsi la colpa della sopravvivenza di quell'ora in più. Il rumore della fame che fingi di non provare, come la pietà.

Molti di quei vivi apparenti, furono portati a braccio. Erano i sopravvissuti all'inferno. Il buio dei lager, era stato questo, l’esistenza tra le mani di chi decideva ogni giorno se quello doveva essere il tuo ultimo giorno. Tra la paura, la fame, il freddo, il dolore per le percosse continue quel “Lavoro che rende liberi” lo scherno appeso ai cancelli stampato sulle facce di chi entrando non sapeva cosa potesse essere, cosa significasse Auschwitz, Birkenau, cosa potesse accadere tra quelle baracche di legno in cui a due a due ci si ammassava dividendosi lo spazio, sopravvivendo ingoiando zuppe di nulla, bucce di patate e cimici.

 

 

“In America quando mi rifeci una vita, come potevo raccontare alle mie bellissime figlie che avevo separato l’uno dall'altro i corpi usciti dalle camere a gas spezzato loro le ossa, perché i tedeschi potessero bruciarli?” Questo raccontava una delle voci dei sopravvissuti, Joshua Kaufman ex detenuto nei campi di concentramento nazisti chiedendosi ancora se esiste un motivo essere sopravvissuti. La sua voce è una delle testimonianze al mondo di quel buio. A distanza di anni quelle voci sono secondo le ricerche più recenti circa 245.000, vite che hanno superato gli 86 anni, tra di loro qualche centenario, il cui unico pensiero costante è cosa ne sarà di tutto quello rimasto nei loro occhi quando non ci saranno più. Ci saremo noi, le nostre parole, le parole dei nostri figli e ancora dei loro, perché nulla possa disperdersi nel tempo.  

Da quegli antri infernali, quelli che ufficialmente erano chiamati campi di lavoro in cui venivano destinati alla morte 6 milioni di ebrei insieme a zingari, testimoni di Geova, omosessuali e chiunque fosse considerato non conforme, ancora si grida una giustizia che impone di ricordare le vite di tutti, e uno tra tanti, Primo Levi che scriveva dal buio di Auschwitz in cui era finito, una delle testimonianze di quei giorni: “Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”. “Se questo è un uomo” è ancora pulsante, e impone di riconoscere in ogni uomo un po' di stesso perché nessuno possa di decidere di spingere nel baratro alcun essere umano.

 

 

27 gennaio 1945 - 27 gennaio 2025








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